Drenthe: “Mi credevo dio, ho amato feste e donne, ma non mi pento di nulla”

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su La Gazzetta dello Sport.
 
Dietro lo schermo di un telefono, in videochiamata Whatsapp con un bicchierone di coca cola in mano e i figli che giocano lì vicino, c’è un ragazzo che è stato molte cose. Di alcune si pente, di altre sorride, di altre ancora racconta in tono serio. Royston Drenthe è stato rapper, calciatore e attore; nuovo Roberto Carlos e promessa mancata, emigrante del pallone e ‘galactico’ al Real; uno che ha avuto quattro mogli, sette figli, un bel sinistro e dei dread scuri raccolti dietro.
 
Uno che ha depistato intermediari perché in Russia non voleva giocare, e poi ci ha giocato. Un ragazzo che ha avuto la chance della vita tra le mani, il Real, ma che l’ha vista sgretolarsi in fretta, per colpa sua, perché alla fine amava il calcio ma anche fare festa. Parole sue. “Ogni volta che cado mi rialzo, e imparo. La vita è così, io sono così”. Per questo Drenthe ci riprova, in campo a 35 anni con il Racing Merida in prima divisione regionale spagnola. Pronto a ricominciare. Di nuovo.
 
Drenthe, si sta adattando a una nuova vita.
“Ormai, che sia fuori o dentro il campo, la mia vita non cambierà molto. Giusto gli impegni, le responsabilità. Sa, in Olanda abbiamo una parola particolare che significa “olandese famoso”. Quando arrivi a essere un olandese famoso, quello il punto di non ritorno”.
 
Com’è finito in un campionato regionale?
“Potrei anche smettere, ma amo il calcio e voglio divertirmi ancora. Poi ho parlato con i proprietari del Racing City Group e ho trovato un bel progetto. Sapevo di avere ancora il livello per continuare, e loro mi hanno convinto a giocare un anno in più. Ma non era per disperazione: ho tante cose da fare oltre il calcio. Ho già un piano preparato. Anche solo badare ai miei figli. Uno di loro gioca a calcio in Olanda. Sta per compiere 12 anni”.
 
Drenthe  ascolta musica prima di una partita, ai tempi del Real Madrid. Getty Images
Drenthe ascolta musica prima di una partita, ai tempi del Real Madrid. Getty Images
Lei fa anche il rapper con il nome d’arte Roya2Faces. Si ascolta la sua musica nello spogliatoio?
“Nel Racing Murcia, un mio compagno sapeva che io avevo fatto musica, ma non pensava che fosse addirittura su Spotify. Quando l’ha scoperto è impazzito! Così quando sono arrivato nello spogliatoio il giorno dopo c’erano solo canzoni mie. Ho detto: ‘Ma che ca… succede?’. Si erano innamorati dei miei pezzi”.
 
Ha iniziato a fare il rapper nel 2016, quando si è ritirato dal calcio per due anni. Oggi che è tornato la sua carriera da cantante continua?
“Nella vita cambiano sempre tante cose. Io amo la musica, ma ho poco tempo, fra il calcio, i figli, le cose che voglio fare. Per stare nello studio, fare una canzone, serve molto tempo. La gente crede che una canzone si faccia schioccando le dita, invece ci vuole un bel po’. Quando lo facevo a tempo pieno, restavo anche 18 ore nello studio. Magari non lavoravamo tutto il tempo… però eravamo lì ad ascoltare in loop sempre la stessa base”.
 
 
Capitolo Real. Primo giorno a Valdebebas. Che ricordo ha?
“Era il 2007 e avevo vent’anni. Ero al top della mia vita. L’emozione era pazzesca, difficile da spiegare. Era un sogno entrare in quello spogliatoio pieno di campioni. Sono memorie che non se ne vanno mai. Il Madrid resterà sempre nel mio cuore. L’opportunità, l’esperienza, la gente, la cultura spagnola”.
 
Prima parlava di “olandese famoso”. Ma quando arriva al Real Madrid, lei diventa un Vip globale. Che effetto ha sulla vita di un ventenne?
“La cosa più difficile è stata capire che avrei dovuto cambiare subito la mia vita. C’è una vita da calciatore e una personale. Puoi mischiarle fino a un certo punto. A volte si sta male quando la gente non capisce le tue frustrazioni da calciatore. Poi non puoi essere timido, o troppo umile: la gente vuole che tu sia “uomo”. Non accettano altro. È difficile. Sto ancora imparando ad essere un calciatore”.
 
A un certo punto non mi piaceva più il calcio. Con l’età ho capito perché: quando le cose non andavano continuavo a puntare il dito contro gli altri e mai contro di me. Non ero pronto ad essere un professionista.
 
 
Alla fine ha giocato anche parecchio.
“Avevo talento, altrimenti non sarei andato nel Real dei ‘Galacticos’. Ma, alla fine, nessuno ti dice quale sarà il tuo momento, il tuo picco, nel calcio. È tutto così veloce. Oggi che sono un uomo mi rendo conto che non sono stato lì nel modo giusto. Ma non sarai mai pronto davvero per un club come il Real Madrid. Oggi tutto può essere tutto alleluia, e domani vengono a dirti: ‘fratello, non abbiamo più bisogno di te’. Fino ai 19 anni tutto è stato alleluia, poi ho preso un aereo e non ero più il migliore dello spogliatoio”.
 
Oggi, se potesse, salterebbe quelle serate con Sneijder, Robinho e Higuaín, o le farebbe di nuovo?
Sorride. “Le salterei. La vita è corta, corre tutto molto veloce e bisogna essere professionali. Ho fatto tanti errori, infatti voglio insegnare ai giovani che fare quello che ho fatto io non li aiuterà”.
 
Un ricordo del Real che la fa sorridere?
“Solo uno? Quello che ho in mente non si può dire. Ci sono segreti che… meglio parlare di una partita dai. La prima contro l’Atletico. Io sapevo che il Madrid fosse grande. Quando sono arrivato c’era una folla incredibile all’aeroporto. Più di un sogno: inimmaginabile. E io sapevo che il derby fosse importante. Ma una roba così sentita, non avevo idea. L’ho capito nel momento in cui sono sceso in campo: ‘E ora che succede?’. E dovevo giocare contro Aguero, Forlan… Per me esistevano solo in televisione. La gente pensa che queste cose siano normali, ma non è così, siamo umani anche noi. E ti tremano le gambe”.
 
Mourinho le disse che per lei non c’era spazio. Che opinione ha di lui?
“È un grande allenatore, con personalità. Non ce n’è uno come lui. Ha il suo stile, e funziona sempre. E se funziona, non ho nulla di negativo da dire su di lui. Facemmo il precampionato insieme, lui era contento di me, voleva tenermi. Alla fine mi disse che Valdano voleva che andassi in prestito. Era un po’ ingiusto, perché era finito il tempo per trovare la squadra migliore per me”.
 
Un altro che è a Roma adesso è Wijnaldum, suo cugino.
“È infortunato, ma Gini è un leone, una tigre. Ci possono essere alti e bassi, ma è la vita. Non si butterà giù perché sta fuori. Quando tornerà sarà un giocatore importante, importantissimo per la Roma”.
 
Ci racconta la Russia, un anno a Vladikavkaz.
“Non volevo andarci all’inizio. Avevo appena finito con l’Everton ed era un momento in cui il pallone non mi piaceva più. Pensavo che fossi il migliore, che fossi Dio. Avevo perso la gioia per il calcio, tornai in Olanda a fare altro, rimasi fuori dal campo per otto mesi. Avevo aperto un negozio, e dalla Russia mi chiamavano ogni giorno per chiedermi di andare lì. ‘Ditegli che non vado’, rispondevo. Un mese dopo si presentano due tipi al mio negozio. ‘Roy, ci sono due russi che vogliono parlare con te’. ‘Digli che sono ad Amsterdam’. Loro sono andati, ma il negozio era a Rotterdam. Poi sono tornati ogni giorno per convincermi. Alla fine ho deciso di dargli una chance. Sono stato un mese in un hotel a fare la preparazione. Mi sentivo un mostro. E infatti, prima partita: tripletta. Bum!”.
 
Perché non le piaceva più il calcio?
“Mi è successo tante volte. Con l’età ho capito perché: quando le cose non andavano continuavo a puntare il dito contro gli altri e mai contro di me. Non ero pronto ad essere un professionista, dovevo ancora impararlo. Se mi guardo indietro adesso mi chiedo: ‘ma come facevo a pensare quelle cose?’. Mi credevo dio, ma se vuoi restare in alto devi essere il migliore ogni giorno. A me piaceva il calcio, ma mi piaceva anche far festa. E queste cose non sono compatibili se vuoi essere sempre al massimo”.
 
Nessuno dei senatori del Real le ha mai suggerito di cambiare stile di vita?
“Certo. Raúl era un esempio; Michel Salgado era come un fratello, Guti era mio padre. Ma quando hai 20 anni e nessuno ti ha mai insegnato come comportarti in quelle situazioni, è difficile imparare”.
 
È mai stato vicino a una squadra italiana?
“Vicinissimo. Mentre ero in prestito all’Hercules, a dicembre smisero di pagare gli stipendi. Ma io stavo giocando bene e la Juventus mi voleva. Il Real diede il via libera, l’Hercules no. Il proprietario voleva un milione di euro, e io non ero nemmeno un loro giocatore! Per questo alla fine non sono andato”.
 
Lei ha interpretato un narcotrafficante in una serie in Olanda. Fra l’altro non ha mai nascosto di essere stato parte di qualche gang, da giovane…
“Sì, ma la tv è un’altra cosa. Però per il momento questa è la serie più vista in Olanda. Devo dire che la vita da attore mi piace, è una diversa, un mondo diverso. Un lavoro tosto. Non è fisico come il calcio, ma stai lì per tante ore e devi sempre mantenere la concentrazione. Duro, ma figo. Mi piace proprio. Amo i cambiamenti nella mia vita, li cerco il più possibile. Anche questo è Royston Drenthe”.
 
Mi credevo dio, ma se vuoi restare in alto devi essere il migliore ogni giorno. A me piaceva il calcio, ma mi piaceva anche far festa. E queste cose non sono compatibili se vuoi essere sempre al massimo.
 
Si pente degli errori che ha fatto?
“Ogni volta imparo qualcosa, ma ciò che è successo resta nel passato”.
 
Ha avuto quattro mogli. Come si fa?
“Non tutte insieme!” Ho 7 figli, ma lasciami dire che nessuno vuole averne così tante. Quando piaci alle donne e ti piacciono le donne e ne hai troppe, ci sono sempre casini. Il mio messaggio ai calciatori è ‘state tranquilli’. Perché alla fine sono solo traumi, un sacco di storie per nulla, e poi lo paghi anche in campo. Perché stai lì e pensi a tua moglie, o alla fidanzata, o all’altra fidanzata, o alla ragazza che hai in Colombia e ti distrai. Io ero così, ma non lo consiglio.
 
Sicuramente le donne se le gettavano addosso…
Ride. Ci pensa. Poi dribbla: “A volte…”.

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