Il Mondiale è un fatto politico (Parte 2)


“Il Mondiale è un fatto politico”, ripetevano fino allo sfinimento i Generali che organizzarono il Mondiale 1978 in Argentina. Scordiamoci il pallone, allora. In una serie in quattro puntate (qui la prima già uscita su i nostri canali), Sportellate analizza il Mundial 78 nella sua valenza storica, politica e sociale. Nella seconda parte, spieghiamo cosa rappresentò la competizione per i desaparecidos, attraverso un’intervista esclusiva ad Alfredo Ayala, ex-detenuto della ESMA.


Aspetto Alfredo nel quartiere di Tigre, un grazioso centro abitato che vive in simbiosi con il Río de la Plata. Ultima fermata a nord del treno Mitre, per chi viene da Capital Federal – Buenos Aires. Mi ha dato appuntamento in un piccolo edificio che è stato riconvertito in “Spazio Memoria”, e dove quindi spesso si svolgono eventi volti a non dimenticare le barbarie dell’ultima dittatura militare.

L’ho conosciuto nella Escuela de la Mecanica de la Armada, un mesetto prima. La ESMA è stata infelicemente la sua casa per qualche tempo (un paio d’anni), ma non la sua ultima, per fortuna. Una fortuna che non si è ripetuta per decine di migliaia di suoi “compagni”, eliminati dai militari proprio in questo tipo di strutture: centri di detenzione – o campi di concentramento e sterminio, come preferiscono chiamarle alcuni storici – dove finivano i nemici del regime. Oggi, in maniera simile a quanto accaduto nel posto dove sto aspettando Alfredo, il più famigerato campo di concentramento argentino è diventato un Museo ed un luogo di riflessione.

L’evento in cui lo incontro per la prima volta è una chiacchierata sul Mondiale ’78, tenuta da due ottimi giornalisti sportivi, El nene Panno ed Ezequiel Fernández Moores. “La cosa terribile è che da qui si sentivano le grida per i gol dell’Argentina al Mondiale, ma le grida che si producevano qui non si sentivano da nessuna parte”, aveva esordito quel giorno Panno, rimarcando la spaventosa vicinanza del centro di detenzione allo stadio dove si inaugurò e culminò il torneo – il Monumental di Buenos Aires. Alla fine della conferenza, il classico momento delle domande, Alfredo si alzò e ne tenne una tutta sua. Senza fare nessuna domanda, ma raccontando un po’ della sua esperienza da ex-detenuto e un po’ di quella da tifoso del Boca. Un uomo con una storia. Ci scambiamo i numeri e ci salutiamo.

Panno e Moores durante l’evento “Reflexiones acerca del Mundial 78” nel Museo Sitio Memoria della ESMA (foto: Antonio Cefalù).

Saluto Alfredo Ayala, ospite fra un po’ di tempo di un’altra conferenza. Ci sediamo e parliamo. È felice di aiutare un pibe come me nelle sue ricerche. La sua voce è particolarmente acuta, e mi rendo conto solo adesso che è per via delle torture ricevute. Parla di tutta la sua storia con molta naturalezza, ma questo particolare lo occulta spesso.

Preferisce che lo si chiami Mantecol, “perché è il soprannome che avevo nel Movimiento Villero Peronista negli anni ‘70”. Il Movimento era (ed è) una rama del Peronismo – non solo dottrina legata a Juan Domingo Perón, ma da lui in poi anche partito politico – che si proiettava nelle Villas Miseria, i quartieri più infami dell’Argentina dove si concentra la sua popolazione più povera. “Avevo aspirazioni politiche – continua Alfredo – ma non sono mai stato nella milizia dei Montoneros. Anche se, per ogni evenienza, avevo una formazione da miliziano”. Mantecol fa riferimento ad uno dei principali gruppi armati della sinistra peronista che, a partire dal 1973, si rese protagonista di una guerrilla con i gruppi paramilitari statali, appartenenti alla destra. In tre anni, fonte di 576 uccisioni stimate.

“Nei sei mesi precedenti alla mia cattura, andavano cadendo molti dei miei compagni, ed io sentivo la sensazione che presto sarei caduto anch’io. In effetti, riuscì a scappare due volte prima che mi prendessero”. La maniera in cui i militari andavano a catturare “la sovversione” era molto metodica: in piena notte, salivano su delle Ford Falcon nere senza targa ed andavano a prendere le loro prede mentre riposavano nelle loro case. Ad Alfredo, invece, riservarono un trattamento speciale, figlio della sua tenacia nel non farsi sequestrare: “Mi ero nascosto in una zona disabitata nelle periferie di Buenos Aires e loro vennero a prendermi in elicottero, facendo in modo che mi consegnassi in qualsiasi maniera. Io resistetti, finché non mi mostrarono che avevano con loro mio fratello. A quel punto desistetti: non potevo rischiare che facessero qualcosa a lui, che non era coinvolto in nulla di politico”.

Nei primi sei mesi alla ESMA, Mantecol viene recluso nella capucha, salone che prende il nome dal fatto che tutti i detenuti lì dentro siano obbligati a rimanere incappucciati a tutte le ore del giorno. Lo spazio è angusto, costantemente buio e l’aria scarseggia, così come le porzioni degli orribili pasti sempre uguali che vengono propinati ai prigionieri. Allontanarsi dalla capucha, tuttavia, non rappresenta mai un sollievo, perché significa che ti stanno portando alla picaña, letto metallico dove i militari praticavano l’elettroshock – solo una, ma la più famosa, fra le forme di tortura impiegate.

Alfredo Ayala alla ESMA. Alle sue spalle, le immagini del Mondiale 1978. (Foto: La Nación)

“Non mi sentì mai abbandonato mentre stavo lì dentro: sapevo che la mia famiglia mi stava cercando. E, in realtà, la nostra sensazione era che tutto il Paese stesse nelle stesse condizioni”. Ma, come si sopravvive alla ESMA? “In realtà non ho mai trovato una risposta – ribatte inizialmente Alfredo. Addirittura, sentì che mi stessero per uccidere in molte occasioni. Però nella maggior parte delle volte erano simulazioni che mettevano in piedi i carcerieri: le facevano per rinforzare la loro influenza su di noi”.

In realtà, scavando, le risposte sono almeno due. La prima è la pura e semplice fortuna. “Io sono sopravvissuto ai voli della morte,” si confida. “Una notte hanno chiamato il numero con cui mi si identificava e stavo andando in fila con gli altri, finché non appare un uomo che corregge la guardia e gli dice che avevano chiamato il numero sbagliato”. Ciò a cui si riferisce Alfredo quando parla di “voli della morte” è la più famosa e spietata maniera in cui i militari si liberavano dei prigionieri. Promettendo un trasferimento ad una carcere regolare, infatti, questi radunavano i detenuti, li caricavano su degli aerei, li drogavano, spogliavano e malmenavano, per poi gettarli ancora con vita nel Río de la Plata.

La seconda risposta è che, nonostante fosse identificato come tutto ciò che lo Stato ripudiasse, Alfredo era necessario per il funzionamento della sua propaganda. “Se non fosse stato per il Mondiale, probabilmente già mi avevano ucciso,” dice con disinvolta tranquillità. “Nella ESMA lavoravo per curare le infrastrutture, altri compagni si occupavano della burocrazia. Questo è perché la Marina era a capo dell’organizzazione. Se non fu per questo, perché avevano bisogno della mia mano d’opera, non so perché sono ancora qua”.

La sua storia riecheggia con quella di altri detenuti, molti dei quali non facevano parte della guerrilla armata che aveva spinto la Giunta a portare avanti il golpe militare, in cerca di un ordine mai stabilito. Anzi, parecchi di loro erano giovani cittadini con un alto livello di istruzione, i tasselli più importanti di ogni società armoniosa. Per questo li misero proprio a lavorare per la massiccia macchina di propaganda sciovinista che era il Mundial. Non c’era altra scelta, se volevi coltivare la speranza di sopravvivere a quell’inferno.

Fra queste, la storia più celebre è probabilmente quella di Raúl Cubas, uno dei compañeros di Alfredo. A egli venne richiesto di intervistare il tecnico argentino, Cesar el Flaco Menotti, dopo una conferenza stampa, con l’obiettivo di strappare una frase che facesse risaltare il buon operato della dittatura nell’organizzare il Mondiale. Non è mai stato possibile risalire a tale intervista, perciò la veridicità di questa storia è solo parzialmente verificata, sebbene siano in molti gli autori a riportarla. Esiste, però, una foto di quella conferenza stampa, che ritrae el flaco al centro e Cubas che si era forzato verso l’angolino dell’obiettivo. Un messaggio per i suoi cari, che l’avrebbero vista in qualche giornale: sono ancora qui, non preoccupatevi.

Una delle foto risalenti a quella conferenza stampa (ma non quella appena menzionata, che non è reperibile su internet). Cubas è il più in fondo di tutti, appoggiato al muro e vestito in giacca e cravatta (fonte: Vestigios).

“A volte ci facevano uscire, ma non era mai per divertimento,” continua Mantecol. “Era per tirare una trappola ai nostri compañeros, che avrebbero portato ugualmente al centro di detenzione se si fossero fatti riconoscere come nostri amici”. Per esempio, “mi portarono due volte allo stadio durante il Mundial. La prima non fu una partita, ma l’inaugurazione. La seconda fu per una partita dell’Italia. Non ricordo con chi, ma era nello stadio del Vélez. Uscimmo a fare un giro anche quando l’Argentina vinse. Eravamo 10 detenuti”.

“Nonostante tutto, io mi andavo a divertire! A godere delle partite!” mi rivela spontaneamente Mantecol. “I giocatori credono che noi proviamo risentimento verso di loro, ma non è così. Per alcuni di noi, i momenti in cui sentivamo le grida dagli stadi erano uno dei pochi in cui ci sentivamo liberi. Non abbiamo cattivi sentimenti verso il Mundial. Al meno, io no”. Lo dice con una bontà d’animo davvero ammirevole. Qualcuno la scambierebbe per ingenuità.

Quando portarono Alfredo all’inaugurazione, non deve esserci voluto molto per arrivare. L’ESMA, come accennato prima, distava meno di un chilometro dallo Stadio Monumental, dove il presidente de facto Videla avrebbe parlato di “pace” e “libertà” nel discorso inaugurale della manifestazione. Nello stesso istante, invece, in plaza de Mayo protestavano le madri dei desaparecidos. Chiedendo giustizia, chiedendo se i loro figli ci fossero ancora. “Perché non ci dicono negli occhi se sono vivi o se sono morti?”. O, quantomeno, “se sentono freddo, se hanno fame”.

(fine Parte 2)

Questo articolo è apparso originariamente su Sportellate.

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