Domenica 28 maggio 2017

Domenica 28 maggio 2017.

Ho appena pranzato, saranno le due del pomeriggio. Oggi c’è la partita, ma non ho trovato nessun biglietto. So che la guarderò a casa, anche se mi dispiace di aver cercato i biglietti con qualche ora di ritardo. Lo sguardo fuori dalla finestra mi fa scoprire una giornata di sole che non avevo ancora notato – o quantomeno apprezzato – avendo avuto la testa china sui libri per buona parte della mattinata. Decido di uscire, non facciamo che Roma domani non esiste più e non posso più passeggiare per le vie del centro. È un rischio troppo grande, lo studio può aspettare.

Come se sapesse già che l’avrei indossata, la maglia di Totti svetta su tutte le altre appena apro il cassetto del mio armadio. Ne ho altre di Totti, ma questa l’ho comprata a settembre, appena mi sono trasferito in città, perché sapevo sarebbe stata quella del suo ultimo anno. Stranamente sembrava che questo dettaglio lo sapessi solo io in tutta Italia, o forse ero l’unico che aveva avuto il coraggio di leggere il comunicato in cui la Roma annunciava il suo ultimo rinnovo con la giusta imparzialità. (O con un catastrofico pessimismo, direbbero altri).

Forse mi manca un sostanziale bagaglio di romanismo per rendermi conto del perché quest’anno sia stato così turbolento, quando forse si sarebbe potuto vivere con una passione meno autodistruttiva. Che poi non ho mai capito che diamine sia il romanismo; perché la Roma sia una squadra che vive in un ecosistema tutto suo. Quando lo chiedi, cosa sia il romanismo, la classica risposta è che non si può spiegare: devi essere romano e romanista per vivere il romanismo. (attenzione: vivere, non capire). Sarà per questo che non l’ho mai capito.

Forse il romanismo è Totti”, penso mentre attraverso villa Borghese. “Mah”. È una risposta un po’ troppo astratta. Allo stesso tempo probabilmente anche troppo concreta. “Lasciamo stare che è meglio”.

In realtà Totti è molto di più. È un fenomeno sovrannaturale: oltre le qualità calcistiche, quante volte accade che un giocatore, o in generale un personaggio pubblico, di questa rilevanza sia così amato, praticamente ovunque? Il Capitano della Roma, nonostante sia stato un calciatore esuberante, talvolta esageratamente impulsivo, ha quasi sempre unito. Quasi. Per esempio, un’altra domanda a cui non trovo risposta mentre volgo lo sguardo a San Pietro è il classico quesito “meglio re a Roma o supercampione – probabilmente meno longevo – fuori?”. Quanto vale un pallone d’oro, un clásico o una Champions League contro l’amore di una città? Non so se Totti abbia ragione, ma molti direbbero il contrario.

Mentre scendo i gradini che mi porteranno dal Pincio a piazza del Popolo, inizio a non sopportare più le alte temperature di una giornata primaverile solo secondo il calendario. Credo che sia il giorno più afoso che abbia vissuto da quando sono qui, e la maglia sintetica non aiuta.

Il caldo è opprimente, ma il peso che percepisco non dipende solo da quello. Sono sopraffatto da una rassegnazione a tratti rabbiosa, tipica di chi è arrivato davanti ad un problema che non può più posticipare. “Doveva smettere l’anno scorso”, penso, “è una fine troppo triste per una storia così bella. Quante belle storie hanno un brutto finale?”. Non me ne capacito. Le continue polemiche quest’anno mi hanno un po’ destabilizzato.

“Non può finire così”, mi ripeto, come se potesse portare indietro il tempo. Fra l’altro con Totti ho un legame particolare. La prima volta che andai in radio finì catapultato in una FM palermitana, senza che avessi bene idea di quello che stessi facendo. Ero nervoso, non teso. Quell’estate la Roma aveva appena comprato Edin Dzeko e si prospettava un forte dualismo con Totti, che si sarebbe prevedibilmente risolto in favore del ben pagato bosniaco. Il conduttore, per esordire, mi chiese: “Antonio, che ne pensi? Giocherà ancora Totti?”. “Io, Totti, lo farei giocare anche seduto”, rispondo tutto d’un fiato. Quest’anno mi sono accorto, mio malgrado, che non poteva essere così. Che rabbia, anche ‘sta volta tutto si riconferma avere una fine.

Entro nel Roma store di via del Corso: quella folla lì, all’ora di pranzo, non l’avrei mai prevista. Il percorso è chiaro ed obbligato: si fa a spallate fino al bancone delle maglie celebrative, si scopre che sono rimaste soltanto le doppie XL, si dà uno sguardo alla fila chilometrica alla cassa e, nel mio caso, si ritorna all’uscita interrogandosi se il prospetto peggiore sarebbe stato stare in fila per un’ora o dover ingrassare di una quarantina di chili per entrare in una maglietta con le scritte gialle glitterate. Però passeggiare e vedere tutti quei numeri 10 sulle spalle della gente mi riscalda il cuore e mi fa capire che fra circa 3 ore sarebbe successo qualcosa di realmente imperdibile. Mi rendo anche conto che non c’entravano niente Roma, il sole o la poca voglia di studiare: volevo inconsciamente vivere quello che viveva la città, volevo entrare in un negozio solo per dire ad un commesso “non sono pronto”. Ecco, facciamo che rosico per non avere i biglietti dello stadio, altro che dispiacere.

In centro incontro un amico, mi distraggo e smetto di farmi insane domande su quanto possa costare costruire una macchina del tempo. Fra una cosa e l’altra, per qualche strano motivo, mi ritrovo alle 17:55 a correre per strada inveendo contro l’ATAC perché mi sta facendo arrivare in ritardo per guardare la partita sul minuscolo monitor del mio PC. Classico. L’ho già detto che rosico, sì?

In un modo o in un altro arrivo a casa, e mentre davanti ai miei occhi si sta consumando l’ennesimo psicodramma della storia della Roma, la mia mente visualizza soltanto l’ultimo gol di Inzaghi nell’ultima partita con la maglia del Milan. Voglio che sia una festa, che Totti metta tutto a posto lasciandoci con un gol, chisseneimporta se l’annata è stata quella che è stata.

Il Capitano entra al nono minuto del secondo tempo, con la Roma bloccata sull’1-1 dal Genoa. Se c’era una tipologia di partita in cui doveva chiudere era questa: irragionevolmente complicata, con il solito passo di distanza fra l’autodistruzione e la gloria eterna. Proprio come la carriera di Totti, proprio come il romanismo.

Io ci spero, ma Totti continua a non smentirmi: non era il momento giusto. Il fisico è rimasto quello, e lui ce la mette proprio tutta per cercare di rendere la sua apparizione non solo triste, ma addirittura deleteria. Fa quello che vuole, che nei primi 10’ dal suo ingresso si declina nel prendere il ruolo di regista, lasciando una voragine nella sua zona di competenza. Sta rallentando i ritmi e contribuendo ad intorpidire la manovra, ma sembra che debba fare scorta di tocchi a quel pallone per qualche tempo. Un gesto egoista, ma l’amore è anche egoismo.

speravo-foto-telese.JPG_71868383All’ultimo respiro De Rossi e Perotti regalano alla Roma una vittoria fondamentale per arrivare seconda. Non c’è il nome di Totti sul referto dell’arbitro, e lì penso per l’ennesima, dolorosissima volta che avrei di gran lunga voluto vivere l’ultima del Capitano in un altro momento. E non riesco a quantificare il tempo che ci metterà la mitologia a farmi capire che esistono storie stupende anche se da un finale impietoso. E in queste rientra quella del giocatore italiano più forte di sempre. Totti neanche festeggia con gli altri. Lo guardo e vedo la mia rassegnazione. Scende per i gradini che dal campo portano allo spogliatoio. Non è l’ultima volta, perché fra poco uscirà di nuovo a prendersi il suo giro di applausi.

Ci sono cose che non vanno commentate, vanno vissute, interiorizzate. Non c’è sempre bisogno di riversare parole su tutto. Una di queste è l’ultimo giro di campo di Totti. Guardatelo, se non lo avete ancora fatto, ma in silenzio. Perché forse abbiamo detto troppo, persino io in questo pezzo, per permetterci di commentare in qualsiasi accezione l’intimo abbraccio dell’Olimpico al suo eterno Capitano. Questa è l’essenza del calcio. Uno sport bastardo, che alla maggior parte di noi tira in faccia solo delusioni. Eppure riesce a trasmettere un sentimento sconvolgente, a tratti irreplicabile, che ripaga di ogni giorno che abbiamo passato a piangerci addosso perché il campionato non andava come volevamo andasse. Totti lo sapeva già, e infatti ha avuto ragione lui: era meglio essere un re.

totti-ultima-partita-roma-lacrime-4-1024x682Il giro di campo culmina in un discorso. Lui cerca ogni espediente per ritardarlo, non il discorso in sé, ma l’abbandonare quella maglia per sempre. Cammina, lento, seguendo traiettorie che ormai sa non possano che portare alla fine. O ad un nuovo inizio, ma non penso che in quel momento lui riuscisse a vederla così. In mano ha una lettera, premette, con la voce rotta dall’emozione, che forse non riuscirà a leggerla tutta. Inizia.

“Adesso ho paura. Questa volta sono io che ho bisogno di voi e del vostro calore”. Un improvviso lampo che squarcia il cielo sopra l’Olimpico, in quella giornata primaverile solo secondo il calendario. Una carriera da leggenda si chiude così. “Ho paura”. Abbiamo convissuto con la credenza di avere di fronte un’entità metafisica, un fenomeno che nella storia non si rivedrà mai più. Un dio, che dopo una carriera di gesti fuori dall’immaginario umano, ha voluto in una giornata mostrarci tutte le sue debolezze, trovando la forza di donarci quella sua parte terrena che non credevamo potesse esistere. Sarebbe stato facile scattare due foto quattro anni fa e congedarsi da eroe, senza nemmeno una ruga in volto. Ma Totti sapeva già di non aver scelto una vita facile. Totti ha scelto di finire ricordandoci che è un uomo del popolo, proprio quello che è sempre stato. Proprio come il suo raffinatissimo gioco è sempre riuscito a tenere nascosto.

Avevo sbagliato tutti i calcoli: non sarebbe potuto esistere un addio migliore.

Grazie, Francesco.

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