Vincere o perdere, ma sempre con democrazia

Spesso si tende a dare al gioco del pallone uno spessore troppo grande, a ricoprirlo di un’epica che non sempre gli appartiene. È un’abitudine che ci portiamo dietro dalle radici del giornalismo sportivo, dall’epoca in cui il fascismo aveva bisogno di nuovi eroi. E giustamente li cercava nel calcio, lo sport più popolare e più a misura d’uomo. La storia che voglio raccontarvi, però, necessita eccome di una buona dose di epica. Forse per via del fatto che parlare di cronaca sportiva in questo caso sarebbe estremamente superficiale, quasi offensivo. Oggi vi racconto di Sócrates e della Democracia Corinthiana, e del perché il calcio non è mai solo calcio.


Sócrates Brasileiro. Un nome, un cognome, innumerevoli significati. Metto le mani avanti e mi affido a Wikipedia dicendo che è stato un calciatore brasiliano, capitano della Nazionale brasiliana ai mondiali del 1982 e del 1986. Sì, ma guardate anche solo il nome, dai. Questo si chiamava Socrate; un calciatore con un nome da filosofo! Non poteva essere uno come gli altri.

Proviamo a raccontarlo.

Sócrates nasce a Belém, capitale dello Stato brasiliano del Pará, nel 1954. Presto si trasferisce nella più piccola Ribeirão Preto, dove nel ’64 vive uno dei momenti chiave della sua vita e, malauguratamente, della storia dell’intero Brasile. All’età di 10 anni, appena tornato da una partita di calcio, ad accoglierlo nel giardino di casa ci sono suo padre, un falò e una pila di libri. Sócrates ha giusto il tempo per dare uno sguardo: Capitale, Bolscevismo, Partito comunista… non sa ancora bene cosa stia accadendo, ma questa immagine cambierà la sua coscienza per sempre. Intanto, però, deve comunicare a papà Rai le novità realmente importanti:

«Hai segnato un gol tirando col tallone?»

«No, ma ho fatto segnare, più o meno.»

«E sei contento?»

«Sono contento perché nessuno se l’aspettava.»

«Vedere mio padre bruciare dei libri mi colpì molto. Allo stesso tempo pensai che se quei libri dicevano qualcosa di pericoloso io l’avrei dovuto sapere»

Ma cosa stava succedendo in quel Brasile?

Fra il ’56 e il ’61 viene portato a termine, con il governo Juscelino Kubitschek (coadiuvato da João Goulart), il primo mandato civile dal 1926. JK aveva dato respiro alla classe media e compiuto grandi opere di rivalutazione delle infrastrutture e dell’industria, fra cui la costruzione della nuova capitale, Brasilia. Tra le sue riforme troviamo anche l’allargamento dell’accesso agli studi, al consumo e al sapere. Il Brasile è finalmente un paese in ripresa e il cittadino brasiliano si scopre moderno e di cultura. Vi erano però insidie in questa risalita, in buona parte rappresentate dal generale Golbery do Couto e Silva, che fu arrestato per aver tentato un colpo di stato all’indirizzo proprio di Kuitschek. Anche detto O bruxo (lo stregone) per la sua abilità nelle pratiche occulte al potere, Golbery non demorse e riuscì successivamente ad essere nominato Comandante del Consiglio di Sicurezza Nazionale dal neo presidente Jânio Quadros (’61). Lo stregone, in silenzio, osservava attentamente e da dietro le quinte tramava un nuovo golpe.

Le amicizie con Che Guevara e Fidel Castro non giovarono al mandato di Quadros, che terminò prematuramente solo un anno dopo il suo insediamento. Ad obbligarlo ad allontanarsi dal potere furono delle forze poderose, non meglio specificate dalle fonti ufficiali. Anche in questo mandato vice-presidente, João Jango Goulart si ritrovò a capo del governo, dovendo subito scongiurare un attentato ed un nuovo tentativo di golpe.

La situazione era tutto fuorché sotto controllo. Le concessioni del governo a tutte le classi, specialmente quella contadina, erano diventate assordanti campanelli d’allarme per gli esponenti più influenti della destra. Nello stesso 1961, infatti, si era presa la decisione che lo spettro del comunismo in America latina non fosse più trascurabile. Venne così istituita l’IPÊS, una potentissima lobby che presto avrebbe riunito più di 500 entità appartenenti al mondo dell’industria, pubblicità, economia, media e trasporti, concludendo in bellezza corrompendo ogni membro del congresso. Anche se, formalmente, la sigla stava per Istituto di Ricerca e Studi Sociali — con quell’accento sulla E che richiamava furbescamente all’ipê, albero simbolo del Brasile. L’idea alla base di questo progetto era penetrare in ogni meandro della società per influenzare tutto ciò che sarebbe stato utile agli interessi dei potentissimi e, soprattutto, del governo americano e delle multinazionali made in USA (quali Coca Cola e City Bank, per fare due nomi). Tutto questo fu possibile grazie alla Alliance for Progress, il piano stipulato fra Sudamerica e Stati Uniti che garantiva ai primi un fantomatico progresso socio-economico, non con un imperialismo di forza o paura ma con la regola del coraggio e della libertà, e speranza per il futuro dell’uomo. Piano piano che andrete avanti con la lettura, questa affermazione di John Fitzgerald Kennedy diventerà sempre più tragicomica. Come se già non lo fosse. Peraltro anche gli stessi ambiti economici citati nel patto (sorpresa) alla fine gravavano sempre sui sudamericani. Per spiegarla semplicemente, come me l’ha detta un amico brasiliano: «Venivano da noi, compravano materia prima ad un centesimo e ci vendevano le pentole a 10 dollari. Semplice».

A capo di questa macchina cospirativa che viaggiava spedita verso il golpe c’era proprio Golbery, ma il tutto partiva dalla Casa bianca. Nel luglio ’62 si incontrarono il presidente John Fitzgerald Kennedy e Gordon, ambasciatore USA in Brasile, decidendo di scaldare le armi e portare in massa la CIA in suolo brasiliano, sulla solida base degli 8 milioni di dollari che sarebbero stati stanziati per l’occasione. Obiettivo: evitare la proliferazione del germe comunista nell’America latina, un prezzo da pagare molto più caro di quei quattro spicci, secondo gli alti poteri. Per forza di cose, la riconferma di Jango nel ’63 rese l’intervento rivoluzionario ancor più impellente.

Nonostante la morte di JFK, gli statunitensi non cambiarono idea. Anzi, il successore Lyndon Johnson non ebbe nemmeno remore ad apparire come un golpista. «Faremo ciò che c’è da fare e ci esporremo, se necessario», disse pubblicamente. Date le insistenti richieste del popolo per la giustizia sociale e per le riforme agrarie, a quanto pare fu necessario.

Il primo aprile ’64 Rio è sotto assedio, così in un attimo tutto il Brasile. Effettivamente non era solo il giorno di un assist di tacco. I militari mettono a ferro e fuoco tutte le principali città brasiliane e presto inaugurano le nuove carceri. Dentro, in men che non si dica, vi finiscono politici, leader contadini e civili e chiunque alzasse la mano contro la rivoluzione — il tutto giustificato dall’accusa di tradimento della costituzione ed attività comunista. Condanne a morte e, specialmente, le torture degli agenti del DOPS (Dipartimento di Ordine e Politica Sociale, la nuova polizia che assecondava la repressione del regime) diverranno presto pane quotidiano di un grandissimo numero di brasiliani, in quanto col tempo il governo diventerà sempre più intansigente.

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La tortura era spietata, attuata secondo le direttive del manuale della CIA Kubark, che fu di enorme ispirazione per tutti i grandi dittatori dell’America latina (come Rafael Videla, Guillermo Rodriguez, Hugo Bazner o Manuel Noriega). Alle carceri presto si aggiunsero le Case della morte, dove andavano in scena le più brutali sevizie nei confronti dei prigionieri politici. Il governo non darà mai una spiegazione per gli innumerevoli desaparecidos né per i continui (quanto sospetti) suicidi dei prigionieri politici.

A condurre questa macchina infernale c’era Sergio Fleury, comandante del DOPS e del DOI-CODI (altro organo di repressione militare legato all’Intelligence), che si era distinto in passato per i suoi successi come narcotrafficante e sicario degli indesiderati — neri, barboni, disoccupati e criminali comuni. 

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Un estratto dal manuale Kubark, reso pubblico nel 1997, introduce al ruolo del dolore all’interno di un interrogatorio.

Dopo quattro anni (’68), il Brasile era passato dalle mani di Castelo Branco a quelle di Costa e Silva. In quel lasso di tempo i generali ebbero spazio di manovra e potere per cambiare a loro piacimento la costituzione grazie agli Atos Institucionais (Atti Istituzionali), decreti legge emessi ad hoc per legittimare il golpe ed evitare che se qualcuno si fosse permesso di chiamarlo illegale avesse anche avuto ragione. Per rendere l’idea, erano abbastanza vicini a ciò che in Italia furono le Leggi fascistissime. Grazie a questi il governo riuscì non solo a cacciare i precedenti statisti, ma anche i professori universitari, i quali vennero rimpiazzati da agenti di repressione sotto copertura; regolavano, nelle modalità che abbiamo già visto, i reati politici e la tortura, filtravano, come vedremo fra poco, ogni tipo di arte o canale di informazione. Imponevano inoltre il bipartitismo, come il buon costume consiglia in queste situazioni. Nel 1968 si era già arrivati all’AI4. 

Per garantire la continuità dell’opera rivoluzionaria, il 13 dicembre viene istituito il famigerato AI5. Al presidente vengono dati poteri straordinari per chiudere il congresso e sospendere tutte le attività legislative, dalle camere dei deputati statali fino ai consigli comunali. Da ora in poi, gli arresti possono essere effettuati senza un mandato giudiziario. L’habeas corpus per i delitti politici viene sospeso: tutto ormai era un reato politico. Le elezioni dirette furono temporaneamente interrotte e i giornali di Rio e San Paolo immediatamente occupati dai censori del Regime. La presa del governo sulla popolazione aveva raggiunto la sua stretta massima. Nessuno poteva più dirsi libero.

A partire dall’AI5 lo sforzo dei giornalisti, scrittori, musicisti e perfino autori di telenovelas divenne la ricerca costante di metodi per sviare la censura. Sforzo che presto diventò una forma d’arte. La neonata MPB (Musica Popolare Brasiliana), con Chico Buarque de Holanda e Geraldo Vandrè a trainare il movimento, era l’unica via d’uscita disponibile per i giovani. A dirla tutta, gli artisti riuscivano di rado a mandare qualche messaggio sovversivo attraverso la musica. Ma quando questo accadeva creavano dei veri e propri inni alla libertà. È il caso della bellissima canzone Pra não dizer que não falei das florescantata ad ogni manifestazione dei contro-rivoluzionari.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=1KskJDDW93k&w=420&h=315]

Ci sono soldati armati, amati o no
Quasi tutti perduti, con le armi in mano
In caserma gli insegnano un’antica lezione
Di morire per la patria e vivere senza ragione

I giornali non potevano opporsi al volere del regime: significava chiudere battenti e, spesso, rischiare la vita. C’è chi, come la Rede Globo, costruì la propria popolarità spalleggiando il regime. Altri, invece, cercarono scappatoie di fantasia per denunciare la situazione. Il Jornal do Brasil, per esempio, scrisse nelle previsioni del tempo, in alto a sinistra della testata: «Tempo nero. Temperatura soffocante. L’aria è irrespirabile. Il Paese è straziato da venti forti. Massime: 38 gradi a Brasília. Minime: 5 gradi a Laranjeiras». Era proprio a Laranjeiras, quartiere di Rio, dove il giorno precedente veniva firmato l’AI-5; i soli cinque gradi alle porte dell’estate brasiliana penso parlino da sé. Gli organi della repressione scoprirono subito il sotterfugio dell’editore e lo incarcerarono. Non lo uccisero, perché non avrebbe avvertito la paura di non rivedere mai più i suoi cari.

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La prima pagina del Jornal do Brasil del 14 dicembre 1968.

In quell’anno che in tutto il mondo rappresentò le lotte e le conquiste della gioventù, nel Paese dell’ordine e del progresso i prigionieri politici erano obbligati a pulirsi dei loro bisogni con la Storia del Brasile. Erano tempi durissimi, e sarebbero durati parecchio, più di quanto accadde nelle altre dittature sudamericane.

Se non altro, il Brasile sta vivendo il miracolo economico portato avanti dal generale Emílio Médici, che aveva raggiunto buoni risultati aprendo le frontiere del Paese alle industrie estere. Tuttavia, la bolla del miracolo volteggiò timidamente prima di scoppiare, presto, nel 1970. Quale anno migliore? Come spesso è accaduto (e continua ad accadere), il calcio tende una mano ai potenti, che si prendono tutto il braccio. Il ’70 è infatti l’anno del Mondiale messicano, il primo trasmesso in diretta televisiva su tutto il suolo brasiliano. Così per la coppa del mondo il regime ebbe a disposizione una potentissima macchina della propaganda, condotta dal tecnico Mario Zagallo – chiamato in causa per guidare la nazionale poco prima della competizione perché il comunista Saldanha non era più nei piani tecniciLa Seleçao incanta e si aggiudica la terza, ed ultima, Coppa Rimet. Intanto, mentre i brasiliani si godevano le magie dei cinque numeri 10 Jairzinho, Gérson, Tostão, Rivelino e – ovviamente – Pelé, la popolarità di Médici sfiorò un’inedito 70%. Una boccata d’ossigeno vitale per la dittatura, che acquisì nuova linfa vitale per proseguire il suo cammino.


Sócrates adorava Pelè. Come innumerevoli ragazzini della sua età, egli si professava santista solo per amore del numero 10 alvinegro, e obbligava il papà a portarlo allo stadio ogni volta che Santos e Botafogo si incontravano. A quei tempi era il suo idolo, ma con lo stesso Edson Arantes do Nascimento avrebbe scatenato una forte polemica nel prossimo futuro. «I loro coetanei stavano subendo torture, venivano assassinati. E questo perché lottavano per un Brasile democratico. Nessuno di loro disse nulla. Neanche Pelé disse una parola, e questo mi deluse molto», dichiarò il Magrão.

Magrão, dicevamo. Sì, proprio perché sembrava quasi un cerino, specialmente da ragazzo: alto, ossuto e con quella sua chioma riccia e voluminosa che sarebbe diventata uno dei suoi grandi tratti distintivi — caratteristiche, queste, che tutto avrebbero suggerito di lui, men che giocasse a calcio. Ma giocava, e incantava. Leggenda narra che il soprannome Magrão lo ottenne al suo provino per il Botafogo di Ribeirão Preto. Pare che l’allenatore Tiri gli avesse richiesto di giocare in attacco, ma Sócrates non voleva saperne e puntualmente andava a ripararsi nell’ombra del centrocampo. Tiri era spazientito, e continuava a girarsi verso il suo collaboratore esclamando: «Ma tu guarda quel… come si chiama… quel Magrão! Ma che diavolo fa?!». Piano piano Sócrates prese ritmo. Continuò a trasgredire ogni direttiva, ma iniziò a deliziare gli osservatori con spettacolari dribbling e colpi di tacco. Tiri continuò a ripetere «Ma tu guarda quel Magrão!», ma adesso le sue esclamazioni avevano accompagnato il tedio negli spogliatoi e si erano riempite di piacevole sorpresa. Fatto sta che, finito l’allenamento e tramontato il sole, Tiri ha già fissato con papà Raimundo l’appuntamento per tesserare quel ragazzo tanto svogliato quanto abile con il pallone fra i piedi.

«Non c’è molto di cui discutere: mio figlio potrà venire solo la domenica, alle partite, perché deve studiare». I dirigenti del Botafogo erano spiazzati davanti alle condizioni che Rai stava mettendo sul piatto, ma non erano nella posizione tale da poterlo contraddire: un ragazzo così non puoi rischiare di perderlo. E qui veniamo al secondo soprannome: Doutor da bola. Sócrates infatti studia medicina all’Università di San Paolo, la più difficile dello stato. Credeva infatti che il suo destino fosse servire il Brasile e i brasiliani, obiettivo raggiungibile soltanto seguendo la sua vocazione alla medicina. A quei tempi il calcio non è nulla più che il modo che ha di permettersi università, birra, wiskey e sigarette. Sarà anche questo fino alla fine dei suoi giorni, ma in quel momento non avrebbe mai potuto immaginare che le sue giocate da esteta del pallone avrebbero potuto influire sul suo Paese ben più della medicina.

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Sócrates in abiti da medico.

«No, sono uno studente di medicina»: è questa la risposta che il Doutor riservava a chi gli chiedesse se fosse un giocatore del Botafogo. Effettivamente, fra continue assenze dagli allenamenti ed un fisico da diciassettenne ancora inadatto a reggere botta contro i grandi, i primi due anni al Botafogo raccontano di un Sócrates lontano dalla prima squadra, nonostante i tentativi dello staff tecnico di portarcelo in pianta stabile. La rincorsa verso il calcio vero la prende il 18 marzo del ’73, quando continua ad allenarsi solo nel giorno prima della partita ma la sua struttura fisica assomiglia molto di più a quella di un adulto. Si è appena chiuso il primo tempo della partita casalinga contro lo Juventus, il quale è in vantaggio per un gol di Vanderlei. Come se non bastasse, l’unico attacante del Botinha Geraldão non può più proseguire la partita per via di un infortunio. Negli spogliatoi il tecnico Sampaio passeggia senza dire una parola, cercando negli occhi delle riserve una certezza che nessuno sembra potergli dare. Improvvisamente l’idea: «Magrão, facci vedere qualcosa». Sócrates mette in mostra un QI calcistico che nessuno pare nemmeno sfiorare, sfornando palloni fra le linee avversarie che per buona parte della gara i suoi compagni inseguono con colpevole ritardo. Pallone perfetto dopo pallone perfetto, Amaral finalmente corre sulla stessa onda di pensiero del dottore, raccoglie il passaggio dopo l’ultimo uomo e infila il pareggio. Da qui in poi, Sócrates non uscirà mai più dall’undici titolare.

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Sócrates diventa presto un punto fermo anche del Brasile, con la cui maglia ci ricorda come non sappia fare gli assist.

Nonostante tutto, la priorità rimane lo studio. E anche quando in ritiro, il Mãgrao passa le notti con un libro in una mano e la sigaretta nell’altra. È emblematica la vicenda dell’anno successivo al suo debutto, quando si presentò a San Paolo un’ora e mezza prima dell’inizio della gara col Corinthians, sebbene la squadra fosse arrivata in città con un giorno d’anticipo e allo stadio ben quattro ore prima. Sócrates non conosceva il Pacaembu e non riuscì a trovare l’ingresso delle squadre, ragion per cui si ritrovò a ridosso della curva pregando i bigliettai di lasciarlo entrare. Il brasiliano era ormai diventato un punto fermo del Botafogo di Ribeirão, ma era veramente complicato credere che quel ragazzo con il camice in mano che giurava di essere arrivato in ritardo per colpa di un esame universitario fosse veramente un calciatore professionista.

«Mi dia un biglietto, allora»

«Tribuna o curva?»

«Curva».

Quello studente un po’ matto corre per mezzo stadio, si intrufola negli spogliatoi ed entra in campo, con la solita 9 ad ornargli la schiena. Come nella migliore delle favole, Sócrates sforna una prestazione magistrale. Non segna, ma il Botafogo batte contro ogni pronostico il Corinthians per 1-0, sotto gli occhi increduli del Pacaembu. E di un paio di bigliettai.

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Un giovane Sócrates con la maglia del Botafogo di Riberão Preto (agosto 1974).

1977: Passano gli anni, passano gli allenatori, ma le abitudini rimangono intatte. Sócrates continua ad allenarsi saltuariamente, così come continua ad essere imprescindibile per il Botinha, tanto che il nuovo tecnico, nonché amante del lavoro, Jorge Vieira sarà costretto ad ammettere pubblicamente: «Sócrates dimostra di sapersi gestire a modo suo. E, in effetti, lui non è come gli altri». Non c’era forma fisica che tenesse: il Magrão avrebbe giocato pure con una gamba sola. Con un solo tacco. A giudicare dalla vittoria nel campionato Paulista ’77 del Botafogo, Viera non si sbagliava affatto. São Paulo, Santos, Corinthians, tutti spazzati via da una squadretta che non aveva mai avuto nulla da dire fra i grandi. La gioia di una città intera e dello stesso dottore, che intanto era diventato veramente un dottore laurendosi in fisilogia, venne però ben presto razionalizzata. «La vittoria di un titolo è cosa effimera. Domani inizia un altro campionato, che sarà molto più difficile da vincere», disse. Sarà immensamente più difficile, perché Sócrates avrebbe certamente lasciato il Botafogo, ormai promesso sposo del São Paulo.

Il passaggio in maglia bianco, rosso e nera sembra cosa fatta. Manca solo la firma, ma è una formalità più che altro. A sorpresa, però, una chiamata al presidente del tricolor Galvão ritarda la trattativa. Dall’altra parte della cornetta c’è un dirigente del Corinthians, Isidoro Matheus: vuole il mediano Chicão in alvinegro, subito. Per il São Paulo è l’occasione perfetta per mettere in cassa il gruzzoletto che sarebbe servito per comprare Sócrates. Mentre Galvão e Matheus si incotrano per chiudere la trattativa, un altro Matheus, Vicente, è volato a Riberão Preto per strappare il Magrão alla concorrenza. E ce la fa: Sócrates è, con sorpresa di tutti, un nuovo giocatore del Timão.

Ma diventerà molto più che un giocatore.


Lo Sport Club Corinthians Paulista nasce a San Paolo nel 1910, da un’idea di immigrati italiani che, dopo lo smantellamento del Botafogo, cercavano una squadra che li rappresentasse. La creazione avvenne nel quartiere operaio di Bom Retiro, in gran segreto, perché gli assembramenti di immigrati erano spesso repressi dalla polizia. Avvenuta la colletta per comprare un pallone di cuoio – maggior ostacolo per la fondazione del club – venne eletto come presidente Miguel Battaglia, sarto italiano che, per la sua eleganza, era per forza di cose l’unico che avrebbe potuto rappresentare degnamente la società. Il forte legame con l’Italia verrà tuttavia definitivamente sciolto quando Mussolini, nel ’31, richiamò in patria gli oriundi per mettere insieme una Nazionale degna di dimostrare il potere del fascismo al Mondo. Molti dei nuovi italiani veninivano proprio dal Timão.

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Il Corinthians campione del Paulistão nel 1914

Il Corinthians riuscì a vincere qualche piccolo trofeo, ma il campionato brasiliano restava il grande rimpianto dei tifosi e delle varie dirigenze, i quali credevano che qualcuno li avesse letteralmente maledetti, insieme alla casa del club, il Parque São Jorge. Le versioni su come questo fosse potuto accadere erano tante, tutte accomunate da un livello di fantasia discretamente elevato. C’era chi credeva che sotto il campo fosse sepolta una carcassa d’asino, chi una testa di bue, chi di montone; o ancora un rospo con la bocca cucita, o delle galline nere. Nessuno poteva dare un dato certo: la versione, com’è facilmente intuibile, cambiava spesso. Sta di fatto che chiunque intorno al club – complice il gran numero di afrodiscendenti nella tifoseria – tentava il proprio rituale per allontanare la iella. La fede corinthiana era composta da tanto calcio quanto da liturgie, batuques e samba, rendendo l’essere parte di questa sofferenza quasi un privilegio. Un’esperienza metafisica non adatta a tutti.

Addirittura una volta la società, nel tentativo disperato di rimediare a questa situazione, si rivolse ad uno stregone. Questi disse che l’unico modo per vincere la partita del giorno successivo con il Botafogo sarebbe stato legare l’arbitro ad una sedia per tutta la notte. I dirigenti non solo seguirono il discutibile piano, ma decisero anche di fare le cose in grande: misero in piedi un corteo in compagnia di Cachaça, candele ed una bambolina di pezza, che culminò col gettare l’arbitro nel mare di Copacabana – con tanto di sedia, chiaramente – prima di assicurarlo con cura alla sabbia.

Se funzionò? Certo che no. Anzi, il Corinthians perse 3 a 2 per colpa un gol irregolare erroneamente convalidato dall’arbitro. La solita sfortuna.

«Campeão o não, è a mesma paixão»

Così vennero sempre chiamati I sofferenti, i tifosi. A questo nomignolo si aggiungevano puzzole, maloqueiros, poveracci, vetturini, negri, ladroni, e chi più ne ha più ne metta. Questo perché il Corinthians univa tutti i paulisti di più umile estrazione che, nonostante il disprezzo degli avversari, rappresentavano la più folta e appassionata tifoseria in circolazione in Brasile. Per loro il Corinthians era come una religione, perché solo lì trovavano uno spazio. Fiel Torcida, si facevano chiamare.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=nJx0_hBzk_0&w=560&h=315]

Por que será que eu gosto de sofrer?
Vai ver que eu agora dei pra masoquista
Meu amor branco e preto
às vezes me deixou
na mão Mas eu gosto de você,
já não importa a sua ingratidão
Sofro mas continuo a te adorar
Corinthians, meu amor, Corinthians.


L’acquisto di Sócrates da parte di Vicente Matheus rappresentava una svolta in una politica tendente al risparmio. Anzi, se vogliamo dirla tutta, Matheus aveva proprio la fama del tirchio fra i suoi tifosi. Come se non fosse già bastato il recente smantellamento di gran parte delle squadre sportive connesse al Corinthians, Matheus si era guadagnato questa nomea per tanti piccoli gesti, come quello di lavare i bicchierini di plastica che distribuiva alle conferenze stampa. Agli occhi dei tifosi, però, il punto più basso lo toccò quando, nello scegliere se acquistare Falcão o Batista, virò a sorpresa sul giovane Biro-Biro. Un ragazzetto timido, apparentemente insicuro. In campo, per tutti, un peladeiro, uno buono solo a correre da una parte a un’altra. Insomma, non stuzzicava esattamente la fantasia del tifoso brasiliano medio. Tuttavia, non tutti i mali vengon per nuocere. Nelle elezioni del ’78, quando il generale Geisel aveva cambiato la legge elettorale per farla calzare meglio al regime militare, oltre 60 mila brasiliani votarono Biro-Biro deputato. Sarcasmo? Protesta? Difficile dirlo, ma quell’anonimo ragazzo nordestino diventò inconsapevolmente un simbolo della lotta contro la dittatura. Aspettando i suoi compagni.

«Fino al 1978 il Corinthians visse l’era presocratica. Poi arrivò lui. Magrissimo, molto alto, piedi piccoli che non si capiva come potesse stare in piedi. Un Genio»

Juca Kfouri, giornalista brasiliano e tifoso del Corinthians

Tornando a Sócrates, il suo primo anno in alvinegro fu tutto meno che semplice. Il rapporto con i tifosi iniziò nel peggiore dei modi. Il magrão esordì nella conferenza di presentazione dicendo: «Sono felice di essere qui, ma per quel che mi riguarda io sono un santista, e continuerò ad esserlo». Praticamente, come se un giocatore appena acquistato dall’Inter si dichiarasse juventino. Lo scetticismo nei suoi confronti impazzò, e prese sempre più piede quando Sócrates, in risposta alla torcida che lo accusava di apatia, disse che la sua freddezza era dovuta al fatto di non essere un tifoso, ma un professionista. Come se non bastasse, la gigantesca San Paolo iniziò a dargli le vertigini, a mancargli di quelle certezze che Riberão Preto, piccola e familiare, gli dispensava giorno per giorno. Dietro tutti questi problemi, c’era sicuramente il fatto che Sócrates non voleva essere un idolo, né tantomeno era pronto perché questo accadesse. Dal Botafogo alla nazionale brasiliana, che lo privò di tempo ed energia da delvolvere alla tifoseria, forse il passo fu troppo affrettato per lui.

Il Doutor voleva far marcia indietro, voleva tornare al nido. Così pose un ultimatum alla società, nel tentativo di non vanificare un’esperienza che sembrava potesse volgere al tramonto dopo meno di un anno: «Voglio poter discutere con la dirigenza, far capire che il giocatore di calcio è un cittadino con dei doveri ma anche dei diritti. Non si tratta di soldi, ma di principi. Se non sarà così, non rinnoverò il contratto». Sócrates non aveva tutti i torti. Non erano solo folli divagazioni di un animo ribelle: in quel Brasile i calciatori non avevano niente a che vedere con i cartelloni pubblicitari ambulanti che vediamo giocare oggi. Ricalcando le parole di Palhinha, la stragrande maggioranza era trattata come Bóias-frias, nomignolo affibbiato ai lavoratori rurali (riferendosi al pasto, bóia, che mangiavano in marmitte d’alluminio, per cui sempre freddo). Era normale sentirsi dire in sede di rinnovo che i soldi non importassero, magari anche quando il proprio stipendio non bastava a pagare l’alloggio fornito dalla stessa società; nessuno poteva sindacare quando, scaduto il proprio contratto, si ritrovava il proprio cartellino nelle mani del club come fosse uno schiavo. Queste situazioni chiaramente non sussistevano per Sócrates, atleta ai massimi livelli in Brasile. E infatti lui non aveva bisogno di privilegi, era il movimento che aveva bisogno di lui, e di una nuova coscienza di massa.

La società, nonostante l’opposizione del sergente Brandão alla direzione tecnica, si vide costretta ad accontentare il dottore, che intanto i tifosi avevano declassato ad infermiere. Da lì in poi, inizia la vera storia di Sócrates in branco em preto, con nuove motivazioni e vecchie abitudini sul rettangolo di gioco.

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Intanto, negli spogliatoi del Corinthians, Sócrates inizia ad indire assemblee, a cercare di smuovere le coscienze dei compagni. «Noi non decidiamo nel nostro paese, non decidiamo nel nostro lavoro, e a voi sta bene?». Il doutor era ormai abituato allo scetticismo dei compagni verso le sue parole. Inizialmente, solo Biro-Biro e Wladimir, terzino sinistro del Timão, appoggiavano gli appelli di Sócrates. In maniera particolare, quando si votava per questioni spinose come l’abolizione del ritiro, le mani alzate rimanevano tre, contro uno spogliatoio intero. Questioni più leggere, però, piano piano accoglievano sempre più partecipazione. Uno dei primi voti che arrivò ad una maggioranza semplice fu quello sull’orario dell’allenamento mattutino. E anche se magari Sócrates avrebbe dormito un’ora in meno rispetto al solito, lo annunciava col sorriso, perché lo avrebbe fatto democraticamente. Qualcosa stava cambiando, ma era ancora troppo presto: il dottore sarebbe partito per ben quattro mesi per star dietro agli impegni della nazionale. La democrazia doveva aspettare.


Il 15 marzo 1979 João Figueiredo, famoso per essere un rivoluzionario della prima ora, diventò il quinto presidente dell’ormai longevo governo militare. Il generale era certamente un uomo del popolo: «Preferisco l’odore dei cavalli a quello delle persone», aveva dichiarato. O ancora, quando gli venne chiesto se avrebbe spinto il processo di apertura politica: «Certo che bisogna aprire! E se qualcuno prova ad impedirmelo, lo sbatto in galera e lo faccio a pezzi!». L’ultima? L’ultima, dai:«Un popolo che non sa nemmeno lavarsi i denti non è pronto per votare».

Certo, parlare di apertura politica in quel momento parrebbe una forzatura, ma in realtà qualcosa stava effettivamente cambiando.


Mentre diversi esuli tornavano piano piano in Brasile, il Corinthians attraversava, nel 1981, uno degli avvenimenti più neri della sua storia: la retrocessione in B. È a quel punto che emerge una figura chiave nel processo politico che caratterizzerà i paulisti: Waldemar Pires, che sostituisce alla presidenza il vecchio e autoritario Vicente Matheus, facendo leva sul desiderio di abertura che tutto il paese spingeva.

La prima grande riforma di Waldemar fu l’adeguamento degli stipendi. Subito dopo, sentì la necessità di rinnovare il settore tecnico del Corinthians. Al posto di Brandão, arrivò l’allenatore Mario Travaglini, molto più in sintonia con la nuova linea societaria. Ma il vero bisogno di aria nuova si sentiva nel ruolo di direttore sportivo. Pires si rivolse al fidato DS uscente Orlando, promettendogli un ruolo da vice-presidente e carta bianca riguardo al suo successore come gestore del settore Calcio. «Che ne dici di mio figlio?». Il neopresidente non poteva certo essere felice di cominciare il proprio mandato con una raccomandazione, ma una promessa è pur sempre una promessa.

Il figlio di Orlando risponde al nome di Adílson Monteiro Alves, laureato alla Facoltà di Sociologia dell’USP, ex dirigente del sindacato studentesco e già carcerato per motivi politici. Sì, ma il calcio? Pare che da ragazzino giocasse alla Dinamo Penha di San Paolo, squadretta di quartiere nella quale i compagni l’avevano soprannominato piè di papera. La sua presentazione ai giocatori ebbe del tragicomico, per essere quella di un direttore sportivo. «Io sono un sociologo e di come si dirige una squadra di calcio non so proprio niente. Niente. Ma so tante altre cose. Per esempio, sono convinto che il lavoro qui dentro vada organizzato in modo diverso. E credo che dovreste essere voi a dirmi da dove cominciare. Solo voi sapete cosa c’è da cambiare. Insomma: io sono venuto per ascoltarvi». Manco a dirlo, Sócrates si era subito portato in prima fila, scrutando gli occhi di Adilson come un bambino guarda un pacco natalizio per cercare di capire cosa ci sia all’interno. Prese immediatamente la parola, quasi come se la discussione fosse sempre stata fra loro due: «Per prima cosa, qui dovrebbero cambiare i rapporti di lavoro. Noi cittadini-calciatori dobbiamo decidere nel nostro lavoro. Adílson, questo è il nodo centrale».

«Credo che questo possa essere il punto di partenza,» affermò con sicurezza il nuovo direttore sportivo, adesso rivolto a tutto il gruppo, «dobbiamo sentire intimamente che spetta a noi parlare ai tifosi; parlare a migliaia di cittadini che per più di quindici anni sono stati schiacciati dalla dittatura».

«Monteiro, sta esagerando. Cosa dovremmo metterci a fare?» sentenziò qualcuno dal fondo dello spogliatoio. «Votare!» esclamò con veemenza Sócrates. Gli scettici restano, ma sono sempre meno. E il magrão e Adílson, ormai uno di fianco all’altro, sono la fotografia perfetta di come, in quel momento, si sia accesa una scintilla che presto diventerà un incendio ideologico.


Far recepire messaggi alla gente in maniera efficace, tuttavia, non è una passeggiata. Adílson lo sa, e qui sorge l’importanza della sua esperienza extracalcistica. Cioè tutta la sua esperienza, sostanzialmente. L’incontro chiave avviene con Washington Olivetto, il pubblicitario più famoso in Brasile. Chi meglio di lui poteva espandere un movimento da uno spogliatoio ad una Nazione intera? Nessuno, come Adílson aveva già calcolato. Olivetto, gran tifoso corinthiano, prende dunque in mano il settore marketing del Timão, con il compito affidatogli dal suo nuovo DS di sfruttare le nuove concessioni riguardanti la possibilità di avere sponsor sulla maglia da gara. La sua avventura in branco em preto parte con una puntigliosa esplorazione dell’ambiente, alla ricerca dell’idea che avrebbe reso il marchio Corinthians riconoscibile per chiunque: qualche pubblicità sparsa per San Paolo, ma soprattutto tanti incontri nei teatri e nei centri culturali, in cui i portavoce di questa rivoluzione (Adílson, Sócrates, Wladimir e il giovane attaccante Casagrande) potevano diffondere i loro ideali e spiegare cosa stava accadendo nella pancia del Pacaembu. Questi piccoli comizi, in cui si spaziava dal calcio alla politica passando per la filosofia, avevano una rilevanza fondamentale per la reputazione dei giocatori e per la credibilità del movimento. Proprio in uno di questi, Olivetto raccolse l’idea che cercava per rendere il Corinthians un mito di massa. Un nome che avrebbe gridato più forte dei detrattori del movimento che sedevano nei palazzi del Governo e della Federazione. Lo scenario è quello del teatro della Puc, dove nel ’77 furono arrestati circa settecento studenti brasiliani che si opponevano alla dittatura. A prendere parola è l’affermato giornalista di Placar, nonché moderatore dell’incontro e tifoso del Corinthians, Juca Kfouri: «Se i giocatori continueranno a partecipare alle decisioni del club, se i dirigenti non interferiranno e se la stampa di sinistra li appoggerà, vivremo una vera democrazia. la Democracia corinthiana!». Le frasi di Kfouri si susseguono velocemente come note su uno spartito, ma nella testa di Olivetto il tempo si è fermato: estrae il taccuino dalla tasca, scambia uno sguardo d’intesa con Sócrates e appunta quelle due parole. È fatta: il movimento ha un nome. Da quel momento in poi, sarà solo questione di rendere quelle due parole in un font appetibile e il Corinthians avrebbe portato la scritta Democracia Corinthiana sulle spalle finché qualcosa non sarebbe realmente cambiato in Brasile.

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Il nuovo logo della Democracia sulle spalle di Sócrates

E allora nello spogliatoio si inizia a votare, a dibattere sui temi politici che tenevano banco nel Paese. Ma adesso nessuno si astiene, dai magazzinieri alle stelle della squadra, nemmeno per la scelta fra il presentarsi o meno ai ritiri pre-partita. Da dentro quelle quattro mura, quel gruppo di giocatori parlava ad un’intera Nazione, e il messaggio era: si può fare. 

Va da sé: un gruppo di calciatori che saltava i ritiri per farsi trovare spesso e volentieri la sera a bere birra in giro per la città non avrebbe avuto vita lunga, con la pressione che il governo brasiliano e i cartolas (patron delle squadre di calcio) di destra esercitavano sulla stampa. Quindi, sì, l’ideologia era fondamentale. Doveva essere chiara ed esprimere che fare baldoria non era l’intento dei giocatori, ma solo una logica conseguenza della loro libertà acquisita come cittadini e come lavoratori. Libertà con responsabilità, come amava ripetere Sócrates. Ma tutto ciò non bastava, perché per quanto nobile possa essere la tua causa, parliamo sempre e comunque di pallone, e il movimento poteva acquisire credibilità partendo innanzitutto e soprattutto dalle vittorie. Che non mancarono. Quel clima di costante festa che si respirava faceva giocare i ragazzi di Travaglini con una spensieratezza inebriante. E se a quello ci aggiungiamo grandi individualità e motivazioni che inevitabilmente oltrepassavano i novanta minuti settimanali, abbiamo tutti gli ingredienti per raccontare una squadra irripetibile nella storia.

È falso, come molti sostengono, che l’allenatore non avesse un ruolo, che tutto fosse il risultato di una scelta dei soli giocatori. Tant’è che il Corinthians giocava con un inedito 4-4-2, che secondo lo stesso Travaglini ricordava i dettami tattici del Calcio totale olandese, e che era stato accolto con molto scetticismo dalla torcida, la quale era all’oscuro di queste innovazioni tattiche. L’unico che veramente non poteva essere imbrigliato in degli ordini prestabiliti era il doutor: «Vai là e fai quello che vuoi», gli ripeteva sempre l’allenatore. «Quanto a Casagrande e Zenon, pensate che fosse possibile insegnargli a giocare a pallone? Il mister conosceva la psicologia della cosa, sapeva come condurre la squadra. In quel calcio, al contrario di adesso, era la tecnica che contava, e la tecnica di quella rosa era fantastica», racconta invece Luís Fernando.

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Quanto siamo simpatici quando parliamo di tattica e poi magari le partite si risolvono così.

L’Estate dell’82 Sócrates la passa in Spagna, dove disputa un ottimo Mundial, ma esce sconfitto contro l’Italia di Paolo Rossi, incoronata campionessa del Mondo alla fine del torneo. Ad addolcire l’amarissima pillola, il doutor trova diverse piacevoli sorprese al suo ritorno. Titolari e riserve avevano finalmente diritto a richevere la stessa cifra di bichos – i premi partita che molti presidenti usavano come espediente per pagare stipendi esigui ai propri giocatori -, e i ritiri erano ufficialmente aboliti per tutti coloro che li trovassero controproducenti. Inoltre, sebbene la sconfitta della Seleçao fu un pugno alla bocca dello stomacoo per il doutor, presto Sócrates si renderà conto come fosse stato evitato un altro 1970, quando – ricorderete – il Regime era riuscito a salvare la sua immagine grazie alla vittoria nel mondiale messicano.

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Il 1982 è un giro sulle montagne russe che dura 365 giorni per i giocatori del Timão. Innanzitutto, e soprattutto, il Corinthians porta a casa il primo posto nel campionato Paulista. È la vittoria di un grande gruppo, di un movimento che sta sbocciando e inizia ad acquisire forte credibilità da parte del pubblico. È la vittoria di piccole grandi storie individuali. È il caso di Sollito, il portierino cresciuto in casa Corinthians che difese i pali della sua squadra per tutto il campionato. Non sembra una grande notizia, a leggerla in questi termini. In realtà il vecchio Corinthians, impoverito e “militarizzato”, era afflitto, secondo i tifosi, dalla maledizione dei portieri. Il numero di estremi difensori in rosa era infatti ben più esteso del necessario, perché ad ogni errore erano fatti capri espiatori delle sconfitte dalla società e costretti ad una rotazione apparentemente infinita. Un circolo vizioso alimentato dai tifosi, sempre poco pazienti all’indirizzo dei loro numeri 1. Uno dei vari malcapitati era proprio Sollito. Ma ora la musica era cambiata, ed era la stessa che i giocatori suonavano nello spogliatoio. E a ritmo di samba il pallone ruotava sempre nel verso giusto.

Sócrates conclude una stagione esaltante, laureandosi viceartilhero del campionato con 18 gol. Ma la gratificazione più grande sono i titoli dei giornali: «Waldemar Pires: è la vittoria della democrazia», apriva il quotidiano della capitale il giorno dopo la finale col São Paulo. Era la consacrazione perfetta di un movimento che mischiava la rivoluzione dal basso Marxista a colpi di genio imprenditoriali.

«Al contrario di quello che state scrivendo, questa non è un’anarchia. Ditemi, quale anarchia può esserci se tutto viene discusso e votato? E poi discusso e votato di nuovo? […] Io posso solo dire che noi giocatori brasiliani siamo al servizio dei cittadini-tifosi che tanto ci sostengono. Se il governo non vuole che si parli liberamente, noi parliamo liberamente. Se non vuole che i cittadini decidano in maniera diretta, noi lo facciamo. Provate a scrivere questo

[…]

«Ci stai dicendo che non dovremmo più scrivere di calcio?»

«No. Dico solo che nessuno dovrebbe leggervi»

– Sócrates ai giornalisti dopo la vittoria contro il Bangu

Forse, però, la credibilità iniziava diventare troppa. Se non altro, scomoda. Casagrande, capocannoniere del Paulista con 28 gol segnati, venne picchiato e poi incarcerato dalla polizia del regime nel bel mezzo della notte per possesso di droga. Un’operazione efferata, premeditata: un complotto, stando alle alte sfere del club di San Paolo. Che lo fosse o no, i media si scagliarono fortemente contro il Corinthians. Casão verrà scarcerato su cauzione, poi dichiarato innocente per mancanza di prove.

La bufera, come se ciò non fosse abbastanza, arriva anche dall’interno: Vicente Matheus rivuole indietro la sua carica di presidente, forte del fatto che secondo lui Pires avrebbe abusato del proprio potere durante la stipula di una sponsorizzazione. Sócrates lo definisce “un golpe” e, insieme a tifosi e giornalisti di sinistra, si oppone aspramente alla destituzione del suo presidente. Il 29 luglio, il giorno seguente alla vittoria con lo Juventus, l’ingresso di Matheus in sede viene bloccato dal giudice Oscarino Moeller, che si rifiuta di ratificare il passaggio di consegne. Il Corinthians ha in quel momento messo a segno la vittoria più importante, sebbene fuori dal campo. Adesso è stabilmente oggetto del dibattito politico nazionale, in simbiosi con l’opposizione contro-rivoluzionaria, e nessuno sembra avere realmente la possibilità di frenarlo. C’erano i sindacati, gli intellettuali, gli artisti, un drogato, un nero e un comunista ubriacone. Se un po’ di tempo prima poteva sembrare una barzelletta, ora non lo era affatto.

Il lavoro mediatico di Washington Olivetto continua. Il pubblicitario trova una nuova idea per cavalcare l’onda dell’entusiasmo popolare: il 31 ottobre, il logo della Democracia avrebbe lasciato spazio ad una scritta ancor più inedita di quella che l’aveva preceduta – DIA 15 VOTE (giorno 15 vota).

dia-15-voteEra rivoluzionario. Olivetto aveva trovato uno spazio non controllato per lanciare qualsiasi messaggio avrebbe voluto. E ciò che più stupisce è l’apoliticità di questa dichiarazione: vota. Non vota destra, vota sinistraVota. Una commovente richiesta di libertà, qualsiasi conformazione il popolo le avesse conferito. I fotografi ormai inquadravano le spalle dei giocatori del Corinthians. I giornalisti ne iniziano a parlare nella sezione cronaca. E in prima pagina la parola Democracia fa più rumore che mai.

Quelle dell’82 erano le prime elezioni statali dal golpe militare del 1964. Sócrates era fermamente schierato vicino all’amico Lula (che non vincerà), ma non si iscrisse al suo partito per rimanere fedele alla difesa delle elezioni come fenomeno politico e non come arma per perseguire i propri interessi. Durante la campagna elettorale, il magrão e compagni si dividono fra campo, comizi, concerti e show televisivi.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=4odRpTZUA60?ecver=2] Con la maglia DIA 15 VOTE Sócrates alza il pugno, sua classica esultanza, ben 5 volte. La più bella delle quali contro il Santo André.


Sócrates sorseggia una birra seduto s’una poltrona della casa di Adílson Monteiro alves. Lo circondano Zé Maria, il neoacquisto Juninho, Wladimir, il preparatore atletico Helio Maffa e, ovviamente, il padrone di casa.

«Allora?»

Sócrates è in silenzio. Sembra paralizzato come Casagrande quando, con la faccia schiacciata sul gelido asfalto, veniva preso a calci da tre poliziotti. Probabilmente non vorrebbe nemmeno essere lì. L’unica cosa che gli importa in quel momento è che Waldemar Pires venga riconfermato per il secondo mandato alla guida del club nelle vicine elezioni.

«Leão è un soldato, e come ogni soldato vuole ubbedire a un comandante. Gli faremo capire che siamo tutti comandanti».

In quel momento il magrão sta avallando l’acquisto di Emerson Leão, portiere conservatore ed individualista fortemente sponsorizzato dall’amico Adílson. Sócrates beve un altro sorso. È un riflesso meccanico. Anche lui sa che una decisione così importante vada presa da tutti, e che possa rappresentare un rischio comunicarla alla squadra in un secondo momento. Persino Telê Santana non ha voluto convocarlo nel Brasile per la sua presenza troppo ingombrante nello spogiatoio. Può essere una bomba ad orologeria. Oppure, come invece controbatte Adílson, il pezzo del puzzle che può rendere il Corinthians una grande squadra.

«Credo che la Democrazia possa accogliere anche uno col carattere di Leão. Voto sì».

«Lo so che non vogliono che beva, che fumi e che pensi. Ma si devono rassegnare. Perché io bevo, fumo e penso»


La prima parte del 1983 è davvero un casino per il Corinthians, tanto che si potrebbe tranquillamente girare un film solo su questa manciata di mesi. Il 6 marzo il Timão conferma di essere in un momento no perdendo sul campo del Fluminense, ma la vittoria per cui esulta la torcida è quella, tanto attesa, di Waldemar Pires. La sua riconferma è fondamentale: cementifica l’ideologia del progetto nel momento in cui ne ha più bisogno.

Il 27 marzo, infatti, l’allenatore Mário Travaglini si dimette dopo diciassette mesi di Democracia. «Passano più tempo a parlare che a giocare», avrebbe dichiarato in privato. I giocatori del Corinthians però credono tanto nella maturità ideologica del progetto che decidono di passare allo step successivo: l’autogestione. In panchina ci va Zé Maria, ormai al tramonto della sua carriera, ma in quanto rappresentante della squadra.

Il 31 marzo, mentre il Corinthians prosegue il suo momento negativo con il pareggio contro il Vasco da Gama – club per altro apertamente di destra – viene presentato in parlamento l’Emenda contiutional Dante de Oliveira: un emendamento che chiede la modifica degli articoli 74 e 148 della Costituzione, ripristinando così le elezioni dirette del presidente della Repubblica – soppresse dal golpe del ’64. Praticamente un voto nazionale contro la dittatura. Ed è certamente anche grazie alla Democracia, nonostante le maglie col nome del movimento siano state recentemente ritirate dalla censura militare.

Di colpo il Brasile si mobilita nella campagna Diretas Já elezioni dirette subito –, colorando il Paese di giallo, il colore scelto per la manifestazione. Anche Sócrates decide di indossare dei calzini gialli sopra i calzettoni bianchi imposti dal regolamento. È l’inizio della battaglia finale che qualche anno prima Sócrates aveva spinto, quasi da solo e in un’incredibile combinazione di eventi favorevoli, fra un golpe de calcanhar e un altro.

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Capitava spesso.

Colpi di tacco a parte, sul campo i risultati scarseggiavano: il Corinthians venne eliminato dal Brasilerão e Zé Maria venne sostituito da Jorge Viera, che aveva allenato Sócrates ma non sposava le sue idee democratiche, e infatti fece subito tornare i ritiri obbligatori. A questo va sommato il tumulto che creò l’acquisto di Leão: la squadra non aveva per nulla gradito che fosse stato deciso da un’élite ristretta di membri della società. Casão, in particolare, non riuscì mai a perdonare Sócrates per avergli portato in casa un uomo che rappresentava tutto ciò contro cui stava lottando.

L’andamento altalenante del Timão portò gran parte della rosa dal lato di Leão («I risultati non arrivano, l’unica soluzione è comportarci da veri professionisti»), e ormai nelle votazioni indette nello spogliatoio Sócrates e Wladimir si trovavano sempre più spesso soli contro tutti. Forse la Democracia si stava sgretolando irrimediabilmente, ma per il magrão quello che stava accadendo era esattamente il senso della democrazia. Come dargli torto?

Sono scosse di assestamento, quelle. Col senno di poi, questi equilibri che si andavano modificando potranno essere individuati come una delle cause strutturali alla base della fine del Corinthians democratico. Ma non era questo il momento per disunirsi. Lo sapevano tutti.


Il Timão arriva in finale del campionato paulista per il secondo anno di fila, questa volta contro l’ex Travaglini e il suo ottimo São Paulo. Anche dopo l’andata, vinta 1-0 grazie alla rete di Sócrates, il Corinthians rimaneva sfavorito, soprattutto perché ora si andava in casa degli altri.

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Ogni gol era un pugno dritto al cuore del regime. Qui Sócrates esulta per il gol nella finale d’andata contro il San Paolo.

Il 14 dicembre 1983 si contano ottantottomila persone all’Estádio do Morumbi di San Paolo, numero a cui va aggiunta la polizia militare disposta a cingere il bordo del campo come se fosse una trincea.

«Eravamo sicuri di rimanere i favoriti – dichiarerà anni dopo il centrocampista del San Paolo Paulo César -, avevamo studiato un modo per bloccare Sócrates. Poi li abbiamo visti entrare con quello striscione e abbiamo capito che sarebbe stata un’altra lunga battaglia».

Pausa. Ripassiamo un attimo: in Brasile vigeva un regime militare dal 1964. Al governo c’era il genreale Figueredo – quello che preferiva l’odore dei cavalli a alle persone. Si iniziava a parlare d’apertura, ma la gente non era libera. C’era un’intera generazione che non sapeva nemmeno cosa significasse essere liberi. Il bordo del campo era cinto da militari con fucili ben in vista. Il Corinthians è probabilmente la squadra con più tifosi in Brasile. Il Corinthians è l’unica squadra sportiva che in Brasile viene citata nella sezione cronaca.

Play. I giocatori del Corinthians escono dal tunnel con uno striscione che recita: GANHAR OU PERDER MAS SEMPRE COM DEMOCRACIA – Vincere o perdere ma sempre in democrazia. Oggi, 14 dicembre 1983, non ci si gioca una partita. Oggi non ci si gioca il bicampeonato. Oggi si scrive un manifesto ideologico e lo si appende su ogni televisore del Paese. Il São Paulo non può vincere semplicemente perché gioca ad un altro sport.

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In un tripudio di danze e musica, la partita inizia. Travaglini sa che il pericolo numero uno è Sócrates, dunque chiede ad Humberto di marcarlo a uomo, che si trovi ad agire dietro la prima punta Casagrande o che rimanga l’uomo più avanzato quando il Corinthians si chiude in difesa. La gara è una mattanza, e i fischi dell’arbitro sono il metronomo che ne scandisce i tempi. Leão, che è stato l’unico a rifiutarsi di portare lo striscione all’ingresso in campo, compie due parate che ripagano di tutti i problemi che ha creato in quello spogliatoio apparentemente inscalfibile. Il contropiede è la chiara strategia del Corinthians, a cui basta un pareggio, ma ogni volta che il pallone si avvicina a Sócrates, e accadeva spesso, questi è scaraventato a terra, e si riparte da zero. La tattica di Travaglini paga fino all’80’, quando l’arbitro mostra il cartellino rosso a Pereyra, autore di un intervento a gamba tesa su Casão. La Democracia Corinthiana è a dieci minuti dal suo futuro, e deve affrontarlo con gli animi tesi di una gara ormai senza freni inibitori a bloccarne l’agonismo. Qualche minuto dopo l’espulsione, Sócrates raccoglie l’assist di tacco di Zenon e sul primo palo infila il vantaggio branco em preto. I tifosi si riversano in campo, nonostante la partita non sia ancora finita. E lì rimarranno fino al 93′, quando Marcão segna l’inutile pareggio qualche istante prima del fischio finale. Per due anni di fila il Corinthians è campione. Per due anni di fila ha vinto la democrazia in un paese in cui nessuno poteva dire la propria. Adesso serviva l’ultimo sforzo, ma fuori dal campo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=c2BL8m8lVFA?ecver=2] Potete non credermi, ma vi giuro che il Corinthians giocava in trasferta.

Da quella finale in poi, nell’agenda di Sócrates e compagni si legge soltanto di comizi, incontri di sensibilizzazione, conferenze, che poi culminavano in serate passate a chiacchierare in compagnia di sconosciuti e di svariati boccali di birra – senza di quelli, il doutor non avrebbe proferito una parola. Lo amavano tutti, Sócrates. Era veramente un uomo del popolo. Oltre il calcio, e oltre anche l’impegno politico. Era dotato di una sensibilità unica: quando al bar non lo avvicinava nessuno per scambiare qualche battuta o offrirgli una birra, lui si sedeva sul suo tavolino, predeva un tovagliolo e sopra vi componeva delle poesie. Un personaggio meraviglioso.

Nei mesi che si avvicinano alla votazione in parlamento dell’emendamento Dante de Oliveira, scendono decine di milioni di brasiliani in piazza. La pressione sul governo è molto forte. Ciononostante, non abbastanza secondo il doutor. Non voleva che tutta la fatica degli ultimi anni di lotte diventasse vana sul più bello.

Era da mesi che Sócrates riceveva offerte su offerte di club europei, tutte ricchissime, tutte prestigiose. Tutte francamente irrifiutabili. Ma lui non ci pensava un attimo. Sarebbe anche tornato a fare il dottore se non poteva aiutare il suo Paese nel suo ruolo di cittadino-giocatore, non voleva abbandonare il Brasile per nulla al mondo. A nove giorni dalla votazione dell’emendamento alla camera dei deputati, però, le porte per l’Europa le aprì lui stesso, in una piazza gremita di gente:

«Siamo qui per riprenderci la libertà. E se il 25 aprile vinciamo questa votazione, io rimango in Brasile. Non lascerò il nostro Paese!».

Questo era il suo personalissimo sacrificio socratico: non avrebbe mai abbandonato il Brasile, ma decise di mettere sé stesso, il suo corpo, nella lotta politica. Se non fossero bastati l’intera popolazione in piazza, gli anni di proteste e l’inflazione tanto alta da non permettere ai brasiliani di abbandonare il paese visto il loro inesistente potere d’acquisto, Sócrates aggiunse sul piatto il capitano della Seleçao e la responsabilità della sua permanenza in Brasile. Fu un All-in. Il doutor sapeva che se a questo punto il governo avesse voluto rilanciare, si sarebbe preso un grossissimo rischio.

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Sócrates in piazza il 25 aprile 1984 per supportare Diretas Já con la maglia gialla, colore simbolo della campagna.

Il 25 aprile dell’84 si votava l’emendamento Dante de Oliveira alla Camera. In quanto atto di revisione costituzionale necessitava la maggioranza di due terzi per passare al Senato: 320 voti favorevoli, per esattezza.

Sócrates, compagni e Monteiro Alves si riunirono in piazza a San Paolo per seguire in diretta le votazioni. Ormai non c’era manifestazione che tenesse: la palla era passata al parlamento. La censura aveva impedito che i giornalisti fossero presenti alle votazioni, ma qualche deputato dell’opposizione aveva alzato la cornetta per tenere aggiornati gli organi di informazione.

Alle prime battute Jucka Kfouri, giornalista corinthiano che abbiamo già incontrato nella nostra storia, annuncia un buon numero di sì. Dai megafoni della piazza vengono trasmesse onde elettriche, più che sonore: l’entusiasmo della folla è incontenibile.

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Comizio di Diretas Já a Porto Alegre.

Al calare della notte, però, il numero di no e di assenti suonano come una condanna, che diventerà ufficiale alle prime luci del mattino: l’emendamento viene bocciato per ventidue voti. Sócrates, che è stato tutta la notte in piazza ad aspettare il verdetto, dovrà andar via. Alla camera, dopo diciassette lunghe ore di consultazioni e suffragio, si leverà l’inno del Brasile in segno di protesta.

Per Sócrates è la sconfitta più bruciante della carriera, che lascerà un segno ben più profondo di quella che l’Italia gli inflisse nell’82. Ancora non lo sa, ma la Democracia corinthiana, quel gruppo di meravigliosi drogati e ubriaconi, ha inflitto un colpo al regime dal quale non si riprenderà più. Il regime crollerà un anno dopo e la democrazia diverrà aperta a tutti, e non più rinchiusa in uno spogliatoio. Sarà una vittoria, ma adesso il dottore, che non dispone del senno di poi, deve curare le sue ferite lontano da casa.

«Niente più Corinthians, niente più gloria,

bisogna tener fede alle proprie parole,

e portare questo mio corpo sconfitto

fuori dal paese.

Perché è il mio corpo, solo lui, l’unico verbo politico che mi rimane.

Ed è la coerenza l’unica arma che ho

per resistere al naufragio».

Sócrates andò in Italia, alla Fiorentina. Scelse Firenze per Dante, gli Uffizi, il Duomo, e per leggere Gramsci in lingua originale. Il resto era solo calcio.

«Sócrates e i suoi compagni hanno avuto ragione, sono riusciti a mettere in campo la democrazia in un paese che non ne aveva».

Paulo César

Le due maggiori fonti di questo articolo sono i libri Un giorno triste così felice (Lorenzo Iervolino) e Compagni di stadio (Solange Cavalcante).

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su sportellate.it 

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