Visto che nessun altro lo farà per lui, ripercorriamo la vita pirata di Franco Vázquez, il calciatore muto che sa congelare il tempo.
Sale il 4. Ha la solita andatura pachidermica di sempre, ma riesce, almeno questa volta, a non sparare il pallone sulla schiena del suo avversario. È una specie di tic: quando vede il vertice alto dell’area in lontananza, crossa. O meglio, tira un calcio. Schizza la palla come se fosse stata sparata da un cannone fra le gambe del 9, che prova un controllo ambizioso, per non dire disperato. Ne risulta un rimbalzo favorevole all’8, che vivacchiava dietro di lui come svogliato tentativo di rispondere agli ordini del mister. Apre la gamba nella speranza che il suo piede destro incontri la sfera e l’accompagna in senso opposto alla porta, oggetto che da sempre gli è causa di vertigini. Dietro le sue spalle spalanca le braccia in segno di richiesta del pallone un suo omologo, come se conoscesse la repulsione del suo compagno verso l’arco avversario. L’8 si volta ed in preda ai giramenti di testa ruzzola per terra, ma non prima di aver, neanche lui sa come, allungato la palla con lo stesso esterno destro verso il suo trepidante collega. Ingobbito, rifugiatosi in una posizione che era solo apparentemente inutile, Franco Vázquez attutisce il pallone con l’interno sinistro.
Fa caldo, fa caldissimo. Quell’alito di brezza marina che stava rendendo la serata sopportabile si è, d’un tratto, fermato. La goccia di sudore che stava solcando la fronte di un tifoso si è congelata, proprio prima di gettarsi dal burrone che è il suo sopracciglio. Vázquez sente, prima, il suo respiro, profondo, sereno, poi, i battiti cardiaci dei suoi avversari, come anestetizzati. Seguono il ritmo dei tamburi provenienti dalla tribuna, ora dilatatisi nel tempo molto più di pochi attimi fa.
Tum… Tum… Tum…
Pling!: cade la goccia di sudore. Piega il ginocchio sinistro come meccanismo automatico di difesa dall’avversario che si precipita su di lui, altro tocco di sinistro, sta volta con la punta, apre il gomito ma misura attentamente la distanza con l’avversario per evitare di toccarlo, più che per non fare fallo per non sporcarsi. Un passo lungo, uno breve, ed un colpo con il piede sinistro come una carezza. La palla volteggia su sé stessa e, sospinta da quell’inerzia che è la stessa che obbliga il lavoratore d’ufficio ad alzarsi all’alba ogni giorno, stancamente viaggia verso l’arco.
Tum… Tum… Tum…
Il pallone, complice il suo giro vorticoso e qualche gocciolina di sudore che l’aveva ingrassato, schizza via dal guantone dell’1 che, avendo avuto tutto il tempo di accovacciarsi e distendersi, credeva di poterlo parare agevolmente. Vázquez manda un bacio, piega le ginocchia e si lancia, scivolando per terra verso la curva. Il Palermo vincerà quella partita con l’Hellas Verona, ultima giornata della Serie A 2015/2016, per 3-2, ottenendo un’impronosticabile salvezza. È l’ultima gara che Franco Vázquez ha giocato con la maglia rosanero.
Io ho una tesi. Sostengo che non abbiate capito Franco Vázquez. Voi. Nessuno di voi. E per me è una questione importante. Come lo è la politica internazionale o il progresso tecnologico. Ma sarò sincero: non mi aspetto che leggendo queste righe possiamo riconciliarci. Che in un battito di ciglia vediate la luce. Non è neanche un mio desiderio. Mi sono bastati gli interminabili e irrisolti litigi riguardo il suo vero valore con persone a me vicine. Fatemi giusto compagnia, solo questo vi chiedo, mentre vi racconto di quel calciatore muto che sapeva congelare il tempo.
Il 26 giugno 2011 è una data storica per il calcio argentino e per Franco Vázquez. Nel Monumental di Buenos Aires, River Plate e Belgrano si giocavano la partita di ritorno dell’”Ascenso”, uno spareggio fra una squadra di prima divisione ed una di seconda per determinare chi avrebbe giocato nella massima serie l’anno successivo. Dopo il 2-0 di Córdoba, il Belgrano strappò un pareggio a Buenos Aires, ottenendo la promozione ma soprattutto condannando il River alla prima retrocessione della sua storia. Una macchia indelebile, una vergogna con cui i suoi tifosi saranno obbligati a convivere per il resto dei loro giorni.
Vázquez era in campo in entrambe le occasioni, vestendo la numero 10. “È stata la conquista più importante della mia carriera”, ha dichiarato recentemente, scrivendo una nuova pagina del manifesto di una vita fatta di tante attese e pochi picchi. Tuttavia, non c’è troppo da stranirsi del fatto che questo ragazzo di 31 anni abbia vissuto il suo miglior momento agli albori della sua carriera: il Belgrano, “il pirata di Córdoba”, era ed è la squadra della sua vita ed in cui aspira a ritirarsi. Non a caso, anche dopo averla lasciata direzione Europa, continuò per lungo tempo a dedicarle l’esultanza con cui celebrava i suoi gol: una mano portata all’occhio come se fosse una benda, appunto, da pirata. Le radici, prima di tutto.
Nasce a Tanti, ironicamente a pochi chilometri da Córdoba, nel 1989. Il gioco di Vázquez è figlio del “potrero”, distese di terra brulla nel mezzo del nulla rese utili dal posizionamento di due archi a fungere da porte. “Tutti i miei ricordi con un pallone risalgono ai campetti di terra vicino casa. Andavo a giocare con i miei fratelli e i miei amici e ho imparato lì, da autodidatta. In realtà oltre alla terra c’erano tante pietre, e se cadevi ti facevi piuttosto male, il che mi ha aiutato a sviluppare un certo senso dell’equilibrio e del gioco”, ha raccontato. È stato lì che hanno iniziato a chiamarlo Mudo, “perché avevo un carattere tranquillo, ma preferivo parlare con i piedi”.
“Prima che Juanca Olave parasse il rigore pensavo che potevamo perderla, ma quando lo bloccò cadde giù lo stadio, divenne mudo, e dissi ‘è nostra, ce l’abbiamo in pugno’”
Alle 3:30 della notte prima di quel leggendario incontro col River, qualche malintenzionato fece scattare l’allarme dell’Hotel dove alloggiava il Belgrano per disturbare il riposo dei nemici. Vázquez, però, lo dovette svegliare il compagno di stanza: “ho il sonno profondo, non mi sarei accorto di nulla sennò”. Parola chiave: tranquillità. Anche in campo, quando danza sul pallone, passeggiando con quell’andatura basculante che, come un pendolo, ipnotizza ed intontisce i suoi marcatori. Sembra essere lento, ma lui dilata il tempo, lo congela, sospendendo i respiri dei suoi tifosi ed anestetizzando le gambe degli avversari. Il pensiero viaggia a velocità supersonica e doppia la falcata.
Tum… Tum… Tum…
E poi, Hop!, un tunnel, un altro tunnel, un passaggio che è una carezza in un corridoio che nessuno aveva visto e siamo quaranta metri più avanti in una manciata di secondi che dagli spalti sembravano anni. “Il tunnel è la giocata che preferisco, è qualcosa di sublime quando riesce. E non penso che sia un’umiliazione per l’avversario, è una giocata vantaggiosa, che crea superiorità”. Umiliazione o no, il tunnel è per antonomasia la disciplina simbolo dello sberleffo nel grande mondo della giocoleria calcistica e, per una sorta di contrappasso, sbagliarlo spesso implica conseguenze tanto grandi quanto la vergogna che ricopre l’avversario quando riesce. “È una questione di tempo e di sangue freddo”, dice lui. Tutto facile quando sai congelare le lancette.
Mettete Vázquez di fronte ad un albero, gli farà un tunnel.
In silenzio, come sempre, a 22 anni compie il grande passo per ogni giocatore sudamericano: attraversa l’Atlantico. Arriva a Palermo per colmare l’assenza di un altro cordobese come Javier Pastore, con il peso addosso di dover prolungare il suo lascito avendo, tuttavia, caratteristiche differenti. Giochicchia senza lasciare traccia né ricordo in una squadra senza ambizioni né motivazioni e poi parte, alla volta di Madrid, per farsi le ossa in prestito al Rayo Vallecano. Giochiccia, segna tre gol, li celebra portando la mano all’occhio, un po’ per nostalgia di casa, un po’ perché ai tifosi piace cantare un coro chiamato “La vida pirata”.
“La vita pirata è la miglior vita/ Senza lavorare/ Senza studiare/ Con la bottiglia di rum/ Sono il capitano/ Del San Inés/ Ed in ogni porto ho una donna/ La bionda è/ Fenomenale/ E la castana non è neanche male/ E le inglesi con la loro serietà/ E le francesi che tutto ti dan/ Ma se un giorno/ Se un giorno/ Se un giorno/ Dovrò sposarmi/ Sarà con quella del Rayo, una, una e nessun’altra”
L’anno dopo, el mudo torna al Palermo, che intanto è sceso in Serie B, ma ha messo in piedi una squadra di livello per risalire in fretta. Gattuso, nuovo allenatore che durerà una manciata di giornate, gli promette di inserirlo nella lista dei giocatori convocabili in campionato, nonostante la forte competizione all’interno della rosa e la mancanza di spazio per tutti – in fin dei conti, il suo 4-3-1-2 prevede spazio per un trequartista come lui. Ringhio, però, farà marcia indietro, preferendogli Di Gennaro perché l’argentino non mostrava gli attributi necessari per lottare in campo come lui richiedeva. È un colpo duro per Vázquez, una delle poche occasioni della sua carriera in cui apre la bocca di fronte ai media per sfogarsi contro il trattamento ricevuto.
“Non capisco perché non giochi tu, quando in campo scendono questi cani”, gli confidò un giorno Enzo Maresca durante un allenamento, accendendo dentro di lui quel fuoco che la mancata fiducia aveva spento. Intanto era stato rilevato Gattuso da Beppe Iachini ed a gennaio si apriva la possibilità di rinnovare le liste. “Da quel momento presi più sul serio tutto e iniziai a convincere Iachini, il quale puntò molto su di me e mi diede la fiducia giusta per mostrare il mio calcio”. A gennaio Vázquez entrò e non uscì più dai titolari finché non lo vendettero due anni e mezzo più in là, passando – dettaglio non da poco – per ben otto cambi di tecnico.
In due anni e mezzo fece, soprattutto, il trequartista. Ballò uno godurioso tango lungo una dozzina di mesi vicino a Paulo Dybala, grande amico ma innanzitutto sua anima gemella calcistica. Poi “u picciriddu” se ne andò, e Franco ricordò che “ne servono due per ballare il tango” e dovette reinventarsi, fare la punta, l’ala, il “picapiedras” e il fantasista, a seconda dell’allenatore che atterava a Punta Raisi. “Gambeteando” le lancette dei secondi, si scoprì leader tecnico e pacato, ma conduttore in tutto e per tutto, portando una banda di scappati di casa a una salvezza impossibile. Poi se ne andò. Lui voleva giocare a livelli più alti, il club i soldi della sua cessione. Alcuni lo amarono, altri non lo capirono. Come sempre.
“La vita del trequartista oggi è molto più difficile”, ha dichiarato a Rivista Undici. “Il calcio di oggi è più dinamico, più fisico, quindi i calciatori tecnici come me hanno bisogno di più tempo per adattarsi e a volte vengono esclusi a vantaggio di altri più rapidi e più adatti nei frequenti andirivieni delle partite. Eppure io non mi considero un calciatore lento”, concluse come gridando aiuto: Ma come? Io gli do una Mont Blanc e loro si lamentano di non avere il foglio! E ditemi, allora, cosa ve ne fareste del foglio se non aveste la penna?
“Il mio punto di riferimento è Juan Román Riquelme. In questo ci somigliamo: pensiamo più rapidamente degli altri e, anche se non siamo scattanti, sappiamo far girare velocemente il pallone e cerchiamo di creare il maggiore beneficio per il collettivo. Che mi giudichino pure lento, io preferisco avere un passo calmo e tranquillo ma pensare velocemente. Preferisco prendermi il tempo non per coprire più spazio ma per scegliere la migliore soluzione di passaggio”, raccontò nella stessa intervista, ricalcando come la critica che spesso gli si muove sia frutto della cattiveria miope di chi non capisce che chi vede il calcio non ha necessariamente bisogno di correre.
Prima di andarsene da Palermo, c’è tempo per ricevere la chiamata di Conte alla nazionale italiana. Gioca due amichevoli, ma non quella che si disputò al Barbera, per la tristezza dei tifosi che erano accorsi solo per lui. Nel mentre, si trasferisce a Siviglia, continuando un percorso che, fra Argentina, Sicilia e Andalusia, ci racconta di un uomo che ha bisogno di luoghi familiari, caldi e calorosi, che lo coccolino, per star bene con sé stesso e con la palla fra i piedi. Con lui va la fidanzata di tutta la vita, conosciuta a Córdoba, casa.
Inizia sorprendentemente molto bene con Sampaoli, segna addirittura all’esordio nella Supercoppa Europea contro il Real Madrid. Fa l’esterno, la mezz’ala, se serve la punta, ma quasi mai il trequartista. Funziona interno con Machín, gioca nel fallimentare progetto di Montella e, in fine, smette di essere indispensabile con l’arrivo di Lopetegui. Molto lavoro, molto meno tempo da congelare, molto più tempo per correre. Addirittura anche vari gol di testa, non proprio la specialità della casa. Ma c’è sempre spazio per la classe silenziosa e garbata dell’argentino; certo è che già sono 31 e non si può nascondere che la parabola sia ormai in fase discendente. Il popolo “sevillista”, dal canto suo, ha confermato la polarizzazione che l’opinione pubblica gli ha mostrato durante gran parte della carriera: o lo ami o lo odi. O meglio, non lo capisci.
Il telefono smette di squillare col prefisso +39, ma un giorno riceve da una chiamata da un +54: Buenos Aires – Ezeiza, per essere precisi. Era proprio Jorge Sampaoli, con cui aveva avuto un’ottima connessione in Spagna. Lo vuole convocare per l’Argentina e lui accetta di buon grado, avendo giocato solo amichevoli con l’azzurra. Scenderà in campo tre volte con l’albiceleste. Di nuovo, però, solo amichevoli, rendendolo ancora, sarcasticamente, convocabile per l’Italia. E, se giusto dovesse disputare solo amichevoli, di nuovo per l’Argentina e così via in un loop infinito.
“Io ho sempre dovuto lottare per il posto, ma non ho mai smesso di credere alle mie abilità. Mi considero un lavoratore, che lotta e ce la mette tutta, ma alla mia maniera, usando un altro stile. Per via del mio modo di giocare c’è gente che mette un po’ a capirmi e a volte si spazientisce, ma finiscono per accettarmi. Al Belgrano sono arrivato da piccolo e i tifosi mi conoscevano ed anche lì è stato difficile, immaginatevi Palermo. Credo che oggi mi vogliono bene in tutti i club dove sono stato, ma è stato difficilissimo”.
Faceva caldo, faceva caldissimo. Sentì la gocciolina di sudore, che un attimo fa scendeva spericolata sulla mia fronte, frenare come se di colpo fosse scattato il rosso. Anche la flebile brezza di mare, che prima rendeva il clima appena sopportabile, aveva smesso di soffiare. Mi resi conto che non distinguevo più quelli che erano i battiti del mio cuore – dilatati, quasi distorti – dal suono dei tamburi che venivano dalla curva opposta, ubicata appena sopra quell’omino che portava sul dorso il numero 20. Ricordo che alzò la testa, si guardò attorno, con tutta calma, prima da destra a sinistra, poi da su a giù, soffermandosi sulla tribuna a lui più vicina. Guardò i tifosi, le bandiere ingessate nell’aria fattasi densa. Pensò a casa, alle grigliate con la famiglia sorseggiando Fernet con coca, classico drink cordobese. Si concesse un sorriso impercettibile ricordando il suo stupore quando i suoi compagni gli dissero che in Italia nessuno beve il Fernet (tanto meno con coca), nonostante sia italiano. Intanto, la palla fluttuava sul suo piede sinistro e, attorno a lui, il mondo si era fermato. Devono essere passati circa venti minuti.
Pling!: cadde la goccia di sudore. Vázquez toccò la palla, passo lungo, passo corto e calciò con la sfacciata delicatezza di sempre.
Tum… Tum… Tum…
Tum… Tum… Tum…
Guardai il cielo perché quella salvezza poteva arrivare solo da lì. Gridai come non avevo mai gridato per un gol. E ancora oggi ringrazio Franco Vázquez, perché ci sono i giocatori che ti fanno sognare, e poi ci sono i giocatori che scendono nel fango con te per tirarti fuori dai guai. Ho sempre pensato che i calciatori come lui o li ami o non li capisci. Ma in quel momento non importava. In quel momento eravamo solo io e lui, sporchi di fango, ma di nuovo vivi.
Antonio Cefalù
L’articolo è stato originariamente pubblicato, a firma dello stesso autore, su Sportellate.it