Stakhovsky: «Non voglio uccidere, ma i militari russi meritano di soffrire»

«Scusa, dammi un attimo». Arriva di fretta Sergiy Stakhovsky. Si sfila il fucile a tracolla e lo poggia per terra, poi slaccia il giubbotto mimetico. Si getta sulla sedia, sospira, passa le mani sul volto stanco. Solo lì guarda la webcam. È appena tornato dal suo giro di pattuglia per Kiev. Sembra paradossale, ma è quello il momento della giornata che preferisce «perché lavorando non ho tempo di pensare a quello che sta accadendo. Il problema è proprio quando ti siedi e ti rendi conto di tutto».

Fino a due mesi fa Stakhovsky faceva il tennista. Aveva avuto una buona carriera: qualche titolo, un trentunesimo posto nella classifica mondiale, addirittura una vittoria a Wimbledon contro Federer. L’ultimo Open di Australia è stato l’atto conclusivo di una carriera finita a 36 anni. Poi la sua Ucraina è stata invasa e lui ha deciso di tornare in patria e arruolarsi: «Non voglio avere la nazionalità di un Paese che non esiste più».

Non ha esperienza militare, al massimo ha maneggiato una pistola «un paio di volte ad un poligono di tiro». Adesso sul pavimento della sua stanza c’è un fucile, la guerra potrebbe obbligarlo a fare qualcosa che mai avrebbe immaginato: uccidere. Quando glielo si fa notare si congela per un attimo. «Mh. È qualcosa a cui non avevo pensato. Non credo di essere mentalmente pronto a farlo. Decisamente non voglio farlo, questo è certo. Ma, credimi, dopo tre settimane in cui hai visto con i tuoi occhi quello che le truppe russe hanno fatto, vuoi fargli del male. Vuoi fargli davvero male. Poi non so come mi comporterò quando verrà il momento, ma le atrocità che stanno facendo qui sono inumane».

Squilla il telefono, ci fermiamo un attimo. È «тато», papà. Stakhovsky risponde, ma ora è semplicemente Sergiy. Si stropiccia le borse sotto gli occhi, lo congeda in pochi secondi, il tempo di rassicurarlo: va tutto bene, sono solo molto stanco. «Lui e mia madre sono riusciti a scappare». Li sente spesso, come sua moglie, lontana insieme ai tre figli. «Lei non è felice, ma va a giornate. A volte sta un po’ meglio, a volte molto peggio. Come me». Si ferma, fa una smorfia. «Oggi va un po’ peggio».

 

 

«I russi non hanno le forze per invaderci»

A Kiev, dice, la situazione è «stabile». «Se i russi invaderanno presto la capitale? Certo, ma solo per via aerea: sul terreno non hanno le forze per invadere niente». I bombardamenti, in realtà, sono già iniziati. Li ha visti «tutti» nel giro in macchina da cui è appena tornato. «Voglio dire, non parliamo neanche lontanamente di obiettivi militari ormai. Puntano gli edifici civili e li bombardano come se nulla fosse».

Ma «l’esercito russo è demoralizzato», mentre a tre settimane dall’inizio dell’invasione quello ucraino è «più motivato che mai e il morale cresce giorno dopo giorno», sostiene. «Chi era scappato ora sta tornando per unirsi alla causa, perché ora credono nell’esercito, in un presidente che non ci ha abbandonato e vedono che la Russia non riesce a conquistare le grandi città».

Mentre Stakhovsky parla del popolo ucraino che si mobilita in difesa della patria è impossibile scacciare dalla testa le parole di Putin, che nel giorno dell’invasione prometteva di andare a «liberare» il Paese. «Ma da cosa? Lui ha studiato una storia tutta sua. Crede che l’Ucraina non esistesse prima dell’Unione Sovietica. La vera paura è che smetta di esistere nel futuro. Vuole cancellarci dai libri di storia e deportare quelli che rimarranno così non potranno combattere ancora, ma noi non ci arrendiamo».

Gli facciamo notare che in Italia qualcuno non vorrebbe mandare le armi alla resistenza ucraina. Fa sì con la testa, rassegnato. «Bisogna capire che stiamo lottando contro un nemico superiore. E lo stiamo facendo anche per il futuro dell’Europa: se Putin arriverà ai vostri confini, chi vi dice che si fermerà? Io dubito che riuscirà a conquistare l’Ucraina, però potrebbe anche arretrare, ricomporsi, e fra cinque anni provarci ancora, magari in Lettonia. Noi stiamo lottando per la normalità, per questo l’Italia dovrebbe aiutarci, con le armi e chiudendo i cieli sopra di noi. Non bombardano i militari, ma i civili. Mariupol è stata rasa al suolo. E il mondo guarda e dice: ‘È lontano’. Non è lontano: siamo il fronte d’Europa».

Sergiy Stakhovsky in videochiamata
Sergiy Stakhovsky in videochiamata

Stakhovsky non chiede di più solo all’Italia, ma anche ad un italiano in particolare. L’ex tennista ha consigliato ad Antonio Conte di «svegliarsi», visto che si era detto «triste» per le sanzioni agli atleti russi. L’allenatore del Tottenham «non capisce che quella dei russi è una responsabilità collettiva. Non vale più essere contro Putin ma far finta di nulla per evitare problemi. Ora è il momento di alzare la voce, anche per gli sportivi, e se questo non accadrà spontaneamente saranno le sanzioni a provocarlo», spiega.

Chiudiamo la chiamata parlando delle trattative di pace, che pare stiano lentamente diventando più concrete. Stakhovsky dice di fidarsi di Zelesnky, «ma abbiamo già perso troppo: donne, bambine, anziani… spero che non ceda nessun territorio». Ci salutiamo, la sua faccia implora riposo. Sempre che il cielo di Kiev glielo conceda: «Ho sentito dei missili fino a 20 minuti fa, ora dovremo capire se hanno toccato terra».

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