L’uomo che rivoluzionò lo sport con un flop

Dick Fosbury, morto a 76 anni dopo aver cambiato il salto in alto «è stato una specie di Neil Armstrong: ha messo tutti nelle condizioni di far diventare possibile l’impossibile»

 

Quando tutti guardavano per terra, la rivoluzione fu girarsi verso il cielo. Così cambiò il salto in alto Dick Fosbury, morto il 13 marzo, a 76 anni, a causa di un tumore. Un ragazzone americano di un metro e 93 che inventò un modo tutto suo per oltrepassare la sbarra: non saltando con il ventre rivolto verso il materassino, come facevano tutti i colleghi, ma voltandosi verso l’alto, come volesse distendersi sulle nuvole.

Fu rivoluzionario nell’anno giusto, il ’68, quando la sua invenzione servì per vincere l’oro nelle Olimpiadi di Città del Messico. Fosbury, 19 anni, era strano per tutti già in partenza. Gareggiava con scarpe di due colori diversi: quella blu, la sinistra, serviva per prendere velocità nella rincorsa, diversa dalla norma perché allungata e obliqua; quella bianca, la destra, la usava per cercare la spinta. E dopo che gli avversari si esibirono nel canonico salto ventrale, lui stupì lo stadio intero volando a pancia in su. Non era mai successo prima, dopo sarebbe diventata la norma. Lo chiamarono il Fosbury flop, perché pareva saltasse come un pesce fuor d’acqua. La prima e per il momento unica esecuzione sportiva completa a portare il nome del suo inventore. 

«È uno dei pochissimi rivoluzionari nel mondo dello sport. Di tutte le discipline. Ha cambiato un paradigma, sia dal punto di vista intellettuale che concreto», riflette per Zeta Mauro Berruto, deputato del Partito Democratico e medaglia di bronzo come Ct dell’Italia di pallavolo alle Olimpiadi del 2012. «Fosbury è stato una specie di Neil Armstrong: ha messo tutti nelle condizioni di rendere possibile l’impossibile. Non parliamo nemmeno di un gesto sportivo, ma di un colpo di genio, una trovata artistica, un balzo nel futuro», continua. «Gli sport si sono sempre evoluti con l’evolversi dei materiali o dei metodi di allenamento, lui ruppe questa linea continua inventandosi qualcosa che nessun altro si sarebbe immaginato».

«Anche oggi, se chiedi a un bambino chiedi di superare un ostacolo, difficilmente lo farà guardandosi all’indietro», nota il giornalista di Sky Nicola Roggero. È lì la rivoluzione, nella sfida a ogni tipo d’intuito. «Al tempo, era come se partecipasse a una gara per gamberi, non per uomini». E infatti il suo salto, seppur vincete, non venne preso tanto sul serio. Alcuni lo derisero, molti si chiesero se fosse anche solo regolamentare, i giornali il giorno dopo lo rinominarono «il saltatore fannullone» perché, nella foto di John Dominis che fece il giro del mondo, sembrava che sull’asta volesse dormirci.

“Foz” era abituato agli scetticismi. Antidivo umile, che ha finito la sua vita in un ranch dell’Idaho dove curava i suoi cavalli e mangiava i manicaretti della moglie, da ragazzino sembrava semplicemente inadatto per l’atletica. Alto com’era, col salto ventrale proprio non riusciva. Provò con la sforbiciata, ma i risultati non bastavano nemmeno per qualificarsi alle gare scolastiche statali. «Stanco di perdere» si inventò il suo salto, ma gli allenatori lo rimproverarono di essere un pessimo esempio: «Ti romperai il collo e indurrai i ragazzini a fare lo stesso». In realtà salvò tanti colleghi, che presto si trovarono a imitarlo, da infortuni irrecuperabili: «Il ventrale era penalizzante per il fisico, durissimo per articolazioni e legamenti, con quella rincorsa breve, che dovevi caricare tantissimo. Un grande come Yashenko smise proprio per questo», spiega Roggero.

«Il paradosso che fa sorridere è che il primo a pagare la sua rivoluzione fu proprio lui», aggiunge Berruto. Gli scetticismi, infatti, durarono poco. Alle Olimpiadi di Monaco ’72, già 28 atleti su 40 adottavano la sua tecnica, segnando la sconfitta definitiva dell’ormai obsoleto salto ventrale. «Ma Fosbury non c’era, non si era nemmeno qualificato, perché proprio grazie alla sua tecnica i suoi avversari lo avevano surclassato».

Di fatto quella di Città del Messico non fu solo la sua ultima grande gara, ma proprio l’unica. Fosbury prese un momento, lo rese storia e smise di lì a poco. Non solo perché aveva perso competitività, ma anche perché gli atleti americani, per essere olimpionici, non potevano venire pagati e allora lui preferì finire i suoi studi da ingegnere. Si impegnò anche nel sociale, fece politica in Idaho, creò un’associazione per aiutare sportivi in difficoltà. Non era una sorpresa: già nel ’68 si era unito alla protesta di Tommy Smith e John Carlos, alzando come loro il pugno sul podio olimpico in segno di supporto ai diritti dei neri. Non se ne accorse nessuno: l’attenzione quel giorno era tutta per il suo salto, l’unico flop di successo nella storia dello sport.

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