Napoli come Buenos Aires: racconto dentro la marea argentina

Da Napoli per La Gazzetta dello Sport

Via Toledo non era mai sembrata così angusta, tanto denso era il flusso di tifosi. Gocciolina in quel mare celeste e bianco, un bambino portava con le braccia verso il cielo una foto di Maradona, come fosse un’immagine sacra. “Song argentino, come loro”. Si chiama Ciro, è uno dei pochi napoletani mischiati con l’infinita massa di tifosi sudamericani, arrivati qui in pellegrinaggio per vedere la finale insieme a Diego. Come tutti gli altri, ha bloccato una città intera per la festa argentina. Ai napoletani non dispiace affatto, tanto che scendono dalle macchine per filmarli.

 

L’INVASIONE

Gli organizzatori del Banderazo dicono che di argentini ne sono arrivati un migliaio. Sembra una stima al ribasso. Sono venuti da tutta Europa, e oltre. Svezia, Svizzera, Repubblica Ceca, Spagna, Tunisia. La maggior parte sono “italiani”, che si sono ricongiunti con le proprie radici per stabilire una vita qui e hanno prenotato il biglietto per Napoli, la loro città santa, non appena la Scaloneta ha raggiunto la finale. Juliana è una di loro, rosarina emigrata a Cosenza. Vende empanadas in Piazza Dante — “il segreto è il cumino”, rivela a chi si complimenta. Non è il suo lavoro, ma lo fa “per portare un po’ di casa a qua a Napoli”. Il figlio, un bambino con la maglia del Newell’s, festeggia l’ultima vendita con un misto di italiano e spagnolo: “Abbiamo fatto cincuenta euros!”. Qualcuno le addenta mentre sorseggia il fernandito, cocktail nazionale argentino a base di Fernet e Coca Cola; altri hanno un mate nella mano sinistra e la pizza a portafoglio nella mano destra. Dietro, contro porte della chiesa, dei ragazzini napoletani giocano con un supersantos. “Ma per voi Maradona o Kvara?”. “Diego!”. Le maglie col 10, intanto, sono scomparse dalle bancarelle, depredate dai visitatori.

FESTA E PAURA 

Il luogo dove tutti avrebbero visto la finale è stato un segreto fino a un’ora dal fischio d’inizio. “Così il comune non potrà fermarci”, grida Luciano, organizzatore bonaerense, per sovrastare i cori dei colleghi. Doveva essere a Castel dell’Ovo, poi in un teatro, poi in un bar. Tutti scartati perché sempre più gente continuava a dare adesione, rendendoli d’un tratto troppo piccoli. Volevano aperto lo stadio, o al limite un maxischermo in piazza, hanno dovuto “accontentarsi” di una discoteca a due piani. Gomitate, spintoni, abbassati che non vedo, salti al grido di “Muchachos”, il coro cult che ora sanno fino alla noia anche i napoletani. È piccolo pure questo. Ottanta minuti di follia. Poi l’agonia, poi il sollievo, poi il baratro. Non conosci il silenzio finché non ti trovi in una grossa stanza piena di gente che sta vedendo la Storia scappare dalle proprie mani. Alla fine la liberazione: pianti, tanti, videochiamate a casa fatte di strilli, baci e altri incontenibili pianti. “Finalmente” è la parola. “Siamo campioni con Diego”, grida un uomo di mezza età guardando il cielo.

IN PARADISO

Il pellegrinaggio di via Toledo — quello di Ciro, per intenderci — finiva a largo Maradona, lì dove c’è il gigante murales del diez. Ci sono andati prima della finale, in cerca di una benedizione, ci sono tornati dopo, perché anche questa volta Maradona è stato l’unico argentino a non averli mai traditi, scappati a malincuore da un Paese in cui non vedevano futuro. “Questo è per Diego, che ci guarda dal cielo”, cantano. Sono venuti qui per vivere la partita seduti accanto a lui. E non c’è luogo più vicino al Paradiso di Napoli, oggi.

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