Gurrutxaga, dalla Liga alla stand-up: “Facendo il comico ho superato la depressione”

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su La Gazzetta dello Sport.
 
Ricordate Zuhaitz Gurrutxaga? No? È proprio questo il punto. Se prendete la sua pagina Wikipedia e la leggete sottosopra, dalla fine all’inizio, avrete una piccola favola calcistica. Un giocatore che ha lottato tanto in club sconosciuti prima di affermarsi nella squadra della sua città e poi fare la storia con la sua nazionale. La realtà, però, non è stata così benevola. La vera cronologia è quella di un ragazzo molto promettente, che ha vinto un Europeo con la Spagna Under 16, ha giocato fino a conquistare la qualificazione in Champions con la sua Real Sociedad… E poi, puff, è semplicemente sparito nelle serie minori e nessuno ha mai più sentito parlare di lui.
 
Colpa dell’ansia, della depressione, del Disturbo Ossessivo Compulsivo. O meglio, della pressione, che di tutti questi mali è stata la causa. Oggi col calcio ci ha “fatto pace”, dopo anni di sofferenze tenute per sé. La chiave è stata trasformare i suoi demoni in uno spettacolo di stand-up comedy, che porta in giro per la Spagna raccontando quello che nessuno rivela della vita del calciatore. E come tic, ansie e manie abbiano tagliato le gambe alla sua carriera.
 
Ce lo racconti meglio.
“È un monologo comico molto, molto personale, nel quale parlo dei tre anni che ho vissuto in Liga nella Real Sociedad. Cerco di raccontare tutto quello che i calciatori di élite sentono quando le cose vanno male, ma non possono dire quando sono in attività. Perché nessuno dice quello che pensa davvero quando fa un autogol, viene espulso o sbaglia un rigore in una finale”.
 
Dura 91 minuti.
“Una partita di calcio. Ma anche i minuti che ho giocato nel mio ultimo anno in Liga, due partite quando la Real arrivò seconda in campionato. Giocai 90 minuti in una e un minuto in un’altra in cui mi fecero entrare per perdere tempo”.
 
Il suo esordio ha un ruolo importante nella sua carriera e nel suo spettacolo. Ce lo racconta?
“Non ero Beckenbauer, però avevo vinto un Europeo e un bronzo mondiale con le giovanili della Spagna. Ero un centrale con un ottimo futuro. Debuttai a 19 anni nel Vicente Calderón, con un allenatore a cui devo tutto, Javier Clemente. Il compito che mi diede fu seguire ovunque Hasselbaink, che era il miglior giocatore dell’Atlético. Eseguì, però venni espulso al 72’. Ma il paradosso fu che prima di quel momento giocai comunque una gran partita, lui non vide il pallone. Così la gente qui iniziò a parlare bene di me, ‘che tipetto questo’, ‘un difensore di categoria’, ‘roccioso’, e via dicendo. Quindi per tutto il girone di ritorno l’allenatore mi diede sempre lo stesso compito: eliminare dal gioco il miglior avversario. E ci riuscivo sempre”.
 
Nello spettacolo dice: “Nel mio debutto a letto sono durato due minuti prima dell’espulsione, in quello in Liga sono durato 72’ prima che mi espellessero”.
“Oggi posso riderci su, ma quell’esordio ha pesato molto su di me. L’anno successivo arrivò un altro allenatore. Mi chiese di giocare in linea, di impostare, quello che ci si aspetta oggi da un difensore. Ma io non riuscivo a fare più nulla. Di botto sentivo di essere solo capace a marcare un avversario per tutto il campo, eppure prima di quel momento io sapevo fare bene anche il resto. Da lì la testa ha smesso di funzionare, la pressione mi ha schiacciato, sono sceso giù e non sono più tornato in Liga”.
 
A volte gli allenatori dimenticano quanto siano fragili i giovani?
“A 19 anni sei un bambino. L’unica cosa che pensavano i miei amici a quell’età era come superare l’hangover il giorno dopo le bevute. Mentre tu sei sottomesso a tante belle cose, applausi sì, ma anche a un giudizio. Ho capito che per trionfare a quell’età puoi essere due cose: molto maturo o un incosciente. Vedo ragazzini di 18 anni che vanno a chiedere la palla, poi sbagliano e la vanno a chiedere di nuovo, come se non si rendessero conto di tutto quello che accade attorno a loro. Cavolo, io mi nascondevo dietro l’attaccante perché non me la passassero”.
 
Cosa le è successo a livello psicologico?
“Prima è stata ansia, poi depressione. Anche se a 22 anni non capisci cosa sia quella roba che non ti fa alzare dal letto la mattina. In più devi fare buon viso lì fuori, perché le telecamere ti filmano pure negli allenamenti. A chi lo puoi dire, poi? All’allenatore, così magari non ti rinnovano il contratto l’anno dopo? È un casino. Dopo un po’ ne sono uscito, ma è arrivato il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Quello sì che continuo a portarmelo dietro da anni, ormai sarà cronico”.
 
E quello com’è cominciato?
“Tanti piccoli tic, ossessioni. Inizi a lavarti le mani in continuazione, e non vuoi toccare nulla né nessuno per paura che ti trasmettano qualche virus. Poi controlli più e più volte se la porta di casa sia chiusa, sposti tutti gli oggetti perché siano perfettamente simmetrici, cammini solo sulle linee rette perché altrimenti porta sfiga, e via dicendo”.
 
Ho capito che per trionfare da giovane puoi essere due cose: molto maturo o un incosciente. Vedo ragazzini di 18 anni che vanno a chiedere la palla, poi sbagliano e la vanno a chiedere di nuovo, come se non si rendessero conto di tutto quello che accade attorno a loro.
 
È vero che una volta Bielsa le ha chiesto di fare uno spettacolo per i suoi giocatori?
“Sì. Lui allenava l’Athletic Bilbao e io ero al mio ultimo anno da giocatore, nella quarta divisione del calcio spagnolo. Mi ha chiesto di fare un monologo ai ragazzi per tirarli su un giorno prima della partita. Ricordo che mi domandò quanto volessi essere pagato, gli risposi che sarei andato gratis perché avevo amici nella squadra, ma lui si arrabbiò. Mi disse: ‘È impossibile, è inaccettabile. L’arte e la cultura vanno pagate’ e che se non avessi cambiato idea non ci sarei andato proprio”.
 
E alla fine?
“Ci siamo messi d’accordo, sono andato ed è stato il mio miglior pubblico di sempre. Poche ore prima, fra l’altro, avevo una partita della mia squadra di terza divisione. Non giocavo titolare: rimasi in panchina tutto il tempo, tesissimo mentre pensavo alle battute e a cosa sarebbe successo se non fossero entrate. Poi avevo paura che le mie esperienze, per loro che ne avevano vissute di molto più grandi, non fossero niente di che, che mi vedessero come un fallito, un fallito che è stato cacciato dalla Liga e come un fallito è finito in tercera e andava lì a raccontargli due battute. Ma è andata bene. Mi sono reso conto che ero la loro voce, dicevo tutto quello che loro non potevano raccontare e lo facevo davanti al loro allenatore”.
 
Come andò la partita dell’Athletic il giorno dopo?
“Persero 4-0”.
 
Ha detto molte volte la parola fallito prima. È stato doloroso ripensare alla sua carriera per farla diventare un monologo?
“No. È stata una medicina: mi ha guarito da quello che mi ha fatto il calcio facendomelo vedere da un altro punto di vista. Mi ha dato modo di prendere il mio fallimento e usarlo per trionfare da un altra parte. E oggi la gente viene a vederlo, ma per me era un trionfo anche quando c’erano 20 persone a ridere alle mie battute. Raccontare questa storia, così dolorosa per me, mi ha aiutato a fare pace col calcio”.
 
Prima diceva che non ci si possa aprire sulla salute mentale nel calcio professionale. Perché?
“Arrivi in Liga, realizzi il sogno della tua vita, hai un contratto di due o tre anni e l’intuizione ti dice che rivelare che stai male non sia una grande idea, se vuoi un rinnovo. È chiaro che dovresti raccontarlo per la tua salute. Il fatto è che tutti capiscono se stai fuori per un infortunio al ginocchio, ma se hai un problema psicologico e ti prendi due mesi di riposo perché hai l’ansia, non so se il mondo, o la stessa squadra, lo capirebbero molto bene. Quindi molti se lo tengono per loro”.
 
Ma le squadre oggi hanno migliori strumenti per affrontare questi problemi rispetto a 20 anni fa.
“Sì, è vero. Quello che non so è se io, anche oggi, avendo tre psicologi in una squadra, andrei a raccontare quello che sento. E se lo psicologo ne parla con l’allenatore e perdi il lavoro? Non è giusto, c’è ovviamente il segreto professionale, ma capirei se qualcuno avesse paura di aprirsi”.
 
Che rapporto ha con il calcio, oggi?
“È stata la mia passione, l’ho odiato e grazie alla comicità ci ho fatto pace e non mi fa più male. Lo vedo ancora qualche volta, ma non sento più nulla”.

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