Xabi Alonso, il predestinato della panchina è pronto per la prima grande sfida

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su La Gazzetta dello Sport.
 
Xabi Alonso ha sempre avuto un superpotere: saper controllare il tempo. Lo faceva in campo, quando sceglieva i ritmi delle migliori squadre d’Europa. Lo ha già fatto nella sua, seppur breve, carriera d’allenatore. Ritardandone l’inizio “perché prima voglio imparare a sciare”. E, quando è cominciata, rifiutandosi di bruciare le tappe perché tanto “non c’è fretta”. Voleva ancora maturare, capire, studiare. Con lo status di genio calcistico che lo accompagnava, d’altronde, sapeva che i treni sarebbero continuati a passare. L’aveva detto anche Guardiola: “Uno così potrà allenare chiunque e dovunque”.
 
Così, prima di accettare il suo primo incarico importante, al Bayer Leverkusen, quando il calcio europeo ha chiamato lui ha sempre risposto “no, grazie”. E mentre ex colleghi come Gerrard o Xavi iniziavano già a puntare trofei sulle migliori panchine del continente, Xabi si coccolava i ragazzi della Real Sociedad B. Era il suo ritmo, e come al solito si sarebbero adattati gli altri.
 
FORMAZIONE—   Sabato Xabi Alonso esordirà nel calcio d’élite con il Bayer Leverkusen, che ha scommesso su di lui per ribaltare un avvio complicatissimo. Lo farà portandosi appresso l’etichetta di predestinato della panchina. Il suo Cv alla voce “formazione” parla chiaro: capo della sala macchine di Liverpool, Real Madrid e Bayern, dopo l’esordio nella sua Real Sociedad, da giocatore. In mezzo, i master impartiti dai fuoriclasse che l’hanno allenato durante la carriera: Benitez, Pellegrini, del Bosque, Ancelotti. Ha lasciato il Real Madrid dopo Mourinho, in Germania ha trovato Guardiola. Così lontani, pensereste; così vicini, ribatte lui: “In quello che a me interessa, cioè il calcio, sono molto simili. Lavoratori, perfezionisti e con un codice. Sono i migliori allenatori che ho avuto”.
 
ESPERIENZA—   Il basco ha assorbito in fretta da tutti i maestri. Così in fretta che, riconosce, verso la fine della carriera si trovava ad analizzare le partite mentre le stava giocando. Il prototipo di allenatore in campo. La carriera vera, quella in panchina, è iniziata nel 2018. Un anno imbattuto con gli Under14 del Real Madrid, poi è andato al Sanse, la squadra B della Real Sociedad, che anche grazie al suo lavoro ha rafforzato lo status di cantera più prolifica in Spagna. Xabi ha subito raccolto un quinto posto nella terza divisione spagnola, poi la promozione in seconda divisione, disputata l’anno successivo nonostante il Borussia Mönchengladbach volesse portarlo via. “Ognuno fa le sue scelte”. Lui ha scelto, in controtendenza con molti colleghi della sua generazione, di non fare il passo più lungo della gamba. Ha preferito fare calcio nell’ombra, un po’ come quando Xavi e Iniesta si portavano via i flash al posto suo. Meglio così: “La Segunda mi ha rafforzato”, ha detto. Anche se non è andata benissimo. Il Sanse, unica squadra B in quel campionato, alla fine è retrocesso. Comprensibile: Alguacil, allenatore della prima squadra, è recordman di giovani lanciati in Liga ed è sceso spesso a fare razzia di talenti, non permettendogli di avere un gruppo di lavoro stabile. Uno di loro è Martín Zubimendi: stesso ruolo di Xabi, che gli ha dato gli ultimi ritocchi prima che diventasse un mediano da Liga e, a seguire, da nazionale. Finita la stagione, a 40 anni, ha deciso che era il momento del salto e la scorsa estate ha salutato la baia di San Sebastián, in attesa della chiamata giusta.
 
STILE—   Ma che tipo di allenatore è Xabi Alonso? Esattamente com’era da giocatore. Un nerd del gioco, che vuole dominare le operazioni e che trasuda tranquillità in ogni momento. In Spagna lo presero addirittura in giro per la sua mancanza di entusiasmo quando centrò la promozione in Segunda, ma lo stile non va in pausa: mano agli avversari e poi che festeggino i ragazzi. Lui guardò assorto, da lontano, come se fosse ancora perso in qualche dettaglio tattico, prima che lo portassero in trionfo.
 
IDEE —   Simili o no, tatticamente è più vicino a Guardiola che a Mou. Di Pep ha detto di apprezzare quando impazziva “se un centrocampista perdeva palla per un dribbling di troppo”. Lui ne ha ereditato la stessa mania di controllo. Il suo modulo di partenza è il 4-2-3-1, dove la ricerca di linee di passaggio in fase di possesso porta i giocatori a ruotare verso un 3-3-2-2 che, per sofisticatezza ha sconvolto tutti nelle serie minori spagnole. La palla, manco a dirlo, dev’essere sua, vuole “giocatori protagonisti e coraggiosi”, che sappiano “dominare i tempi”. La calma quando lo spazio non c’è, la velocità quando si apre. Non si negozia nemmeno sul pressing alto, perché “è meglio obbligare l’avversario a una palla spazzata che a un lancio lungo”.
 
SFIDA —   Passare dalla teoria alla pratica nel mondo dei grandi sarà la grande sfida di Xabi Alonso. Perché un conto è crescere talenti nella catena di montaggio di Zubieta, un altro è misurarsi nel calcio del tutto-e-subito. O prima di subito, vista la situazione disperata del Bayer — penultimo in Bundesliga, una vittoria e due sconfitte nel Girone B di Champions. Intanto lui si è presentato, con la solita compostezza. “Ho preso coraggio per fare questo passo perché so che è il momento giusto”, ha detto, promettendo “dominio”, “intensità” e “mentalità vincente”. Il completo, la capigliatura inappuntabile, le risposte in un tedesco disinvolto intervallate a quelle in inglese, per la stampa internazionale. È già credibile, senza aver fatto nulla.
 
DOMANI —   Se prendiamo per buone le premesse, il Bayer Leverkusen sarà solo il primo passo di una carriera che promette molto bene. O dalla quale tutti si aspettano molto. In fondo, la marca Xabi Alonso aveva già tutte le porte aperte prima ancora che diventasse un allenatore. Quando si è ritirato, Guardiola lo trattava già da discepolo, dicendo che “diventerà un tecnico, ma di quelli buoni”. Rummenigge invece se lo immaginava già “di ritorno al Bayern, perché è un modello”, la Real Sociedad sperava che prendesse lui il testimone di Imanol Alguacil, un giorno. E in Italia? Chissà se tornerà a incrociarsi con la Juve, alla quale fu “molto, però molto vicino in due occasioni” da giocatore. E della quale è tifoso, ma per ripicca. “A 10 anni andai in viaggio a Torino con la scuola e comprai la maglia del Toro di Martín Vázquez, un investimento per il quale sacrificai merendine e Coca Cola per tutto il viaggio. Quando tornai a casa, esaltato con la mia fiammante maglia granata, però, scoprì che l’avevano venduto al Marsiglia. Ero distrutto! Come vendetta per quell’oltraggio, diventai della Juve”. Chissà. Ogni cosa a suo tempo. Vale a dire, il suo tempo, così com’è sempre stato.

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